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Beato Giovanni Giovenale Ancina Vescovo

30 agosto

Fossano, Cuneo, 1 ottobre 1545 - Saluzzo, Cuneo, 30 agosto 1604

Elevato all’onore degli altari d Leone XIII il 9 febbraio 1890, Giovanni Giovenale Ancina fu uno dei primi discepoli di San Filippo Neri”. Nell’Oratorio di Roma, a contatto con Padre Filippo, l'Ancina ha trovato la via su cui avrebbe poi impostato fedelmente tutta la sua esistenza: per l’Oratorio, la principale opera apostolica della Congregazione, lavorò con intelligenza e dedizione, mettendo al suo servizio anche le doti di letterato e di artista, oltre di cultore delle scienze teologiche e di ammirato predicatore. Richiamato a Roma nel 1596, è scelto dal Papa come Vescovo di Saluzzo.

Etimologia: Giovanni = il Signore è benefico, dono del Signore, dall'ebraico

Emblema: Bastone pastorale

Martirologio Romano: A Saluzzo in Piemonte, beato Giovanni Giovenale Ancina, vescovo, che, un tempo medico, fu tra i primi a entrare nell’Oratorio di san Filippo Neri.


L’Oratorio fu per lui un’impronta che orientò ed alimentò la sua vita ed il suo ministero. Tra le testimonianze che si possono cogliere nei suoi scritti c’è anche una poesia, nella quale - con l’armonia di eloquio, di ritmi e di suoni che rivela nell’Ancina il poeta ed il musico oltre che l’uomo colto- egli canta lo spirito e il fine dell’Oratorio: l’intelletto umano, capace di innalzarsi, attraverso l’esercizio della mente, alla conoscenza del creato e della sua bellezza, “gran cosa è certo” (l’Umanesimo di Padre Filippo e della sua scuola!), ma questa nobile impresa da sola non basta all’uomo se il cuore è freddo o se languisce per l’assenza del “celeste ardore” (il fervore religioso e la calda devozione della scuola di Filippo, in cui “si parla al cuore”!); se l’uomo non attinge a quello spirito divino che solo può dare all’anima immortale la gioia di cui è assetata e che lo conforta anche nell’ora del dolore, e se non risponde con opere buone (l’impegno ascetico della proposta filippina!) all’amore di Dio, nulla vale, tanto meno i beni del mondo ed ogni prestigio umano. L’Oratorio, con i suoi sermoni familiari ed i suoi canti, è tutto in questa ricerca di “perfezione” dell’umano ottenuta in dono mentre si sale per i sentieri del “monte”, in cima al quale “tutto n’arde d’amor chi ‘n Dio s’adima”: pienamente arde d’amore chi si inabissa nella comunione con Dio.
L’Oratorio
“Ch’a l’intelletto human tutto si scopra / l’ente creato, e qui nulla si celi qui l’ingegno s’affine ove s’adopra; / ch’arte, natura e ciel tutto si sveli, // gran cosa è certo, alto maneggio et opra. / Ma vagli a dirne ‘l vero e senza veli, /che pro ne vien se ‘l cor freddo com’angue / o di celeste ardor scarso si langue? // Forma gentile e gratiosa in vista / ben può ella apparir, ma nulla vale, / se lo spirto divin non si racquista / onde sol può bearsi alma immortale, // e fuor di quel si giace amara e trista, / se trafitta la ten piaga mortale. / Nulla è haver monarchie tra mille mondi, / s’a Dio col ben oprar non corrispondi. // Qui tutto fisso è l’Oratorio e intento, / che si desti l’affetto e si riscalde: / a questo mira e tende ogni concento / e ogni suo discorso, in tener salde // sempre l’alme con Dio, vero contento. // Or siam del monte sol giunti alle falde, // ch’a mezzo il dorso e al sacro giogo in cima / tutto n’arde d’amor chi ‘n Dio s’adima".
Quando, nel 1586, iniziò a Napoli l’esperienza oratoriana, P. Ancina fu destinato da Padre Filippo a quella Casa su ripetuta sollecitazione di P. Francesco M. Tarugi, e con lo stesso ardore vi svolse molteplici attività di predicazione e di studio, dedicandosi anche alla poesia ed a composizioni musicali, di cui rimane prezioso documento il “Tempio armonico della B. V. Maria”, raccolta di canti e laudi spirituali a tre, cinque, otto e dodici voci.
La capitale del Regno lo vide promotore, per un decennio, di incontri culturali e formativi in vari ambienti. Il suo fervore apostolico lo spinse ad entrare in tutta la realtà culturale e spirituale di Napoli, e la città gli rispose con straordinario favore. Per l’aristocrazia e l’ambiente della Corte - a cui guardò con interesse profondamente pastorale, senza dimenticare di portare in questo mondo le ansie ed i problemi dei poveri - fondò l’Oratorio dei Principi; istituì sodalizi per i dottori, gli studenti, i mercanti, gli artigiani. Organizzò recite ed accademie per le quali preparò i testi e la musica; compose numerose opere religiose in prosa e in versi, la parte maggiore delle quali è ancora inedita. Con questa dedizione instancabile nell’attività pastorale maturò i criteri di apostolato che poi avrebbe seguito negli anni successivi, soprattutto nel breve spazio del suo servizio episcopale. A Roma e a Saluzzo sovente richiamò le esperienze di Napoli.
Chiamato a Roma nel 1596, quando già si profilava per lui la nomina al vescovado di Saluzzo, concordata tra Clemente VIII ed il Duca di Savoia, P. Giovenale visse l’esperienza di un terribile travaglio; soprattutto quando, nel 1598, la decisione parve irrevocabile.  In una Roma che conosceva la corsa frenetica di molti alla carriera ecclesiastica, egli si diede alla fuga, prendendo la strada per Narni, San Severino, Fermo…, giungendo fino a Loreto e proseguendo per altri luoghi. Con quel gesto profetico - che lo poneva sulla linea della più pura tradizione dell’Oratorio, al quale, nonostante gli interventi dello stesso Padre Filippo, il nuovo Papa, conoscendo il valore di questi uomini, aveva sottratto, nel 1592, P. Francesco Maria Tarugi per l’arcivescovado di Avignone e P. Giovan Francesco Bordini per quello di Cavaillon - P. Giovenale aveva cercato di rimanere l’apostolo di sempre, ma nella semplicità dello stile oratoriano.
Fu fatto tornare energicamente a Roma da quel suo cercato “deserto”, e vi fu accolto “con applauso universale”, come si legge nel “Ristretto della vita del Venerabile servo di Dio Giovanni Giovenale Ancina, vescovo di Saluzzo”: “da tutti acclamato per la generosa fuga dalle offerte dignità; il cardinale Tarugi particolarmente non cessava di encomiarlo dicendo: … Non si trovano dei Padri Giovenali che dicano: mi son dato alla fuga per starmene nel deserto”. A causa del perdurare delle trattative tra la Curia Romana e lo Stato di Savoia sui diritti che la Sede Apostolica reclamava, la nomina tardò. Ufficializzata nel Concistoro del 26 agosto 1602, P. Giovenale dovette accettare quel peso. Avrà sicuramente ripensato in quel momento ai versi, volutamente popolareschi, composti a Fermo nei giorni della fuga: il “Nuovo cantico di Giovenale Ancina peccatore, a imitazione del Beato Jacopone da Todi. 1598”, come egli li intitolò, o “Il pellegrino errante” come saranno in seguito denominati: “Pastorato gran travaglio: por la vita a repentaglio, quando gregge và a sbaraglio… Vescovado gran tempesta, notte e giorno al cor molesta: se t’aggrada tale festa, fatti avanti, pecorone!”. Ma non era certo la paura delle fatiche apostoliche a fargli temere quel servizio… C’era il ricordo di Padre Filippo e della semplicità della vita all’Oratorio; c’era la sua umiltà, la coscienza del suo nulla: “Piscopato de Salluce, lascia ad autro esperto Duce, ca no sei tu sal né luce, ma sol ombra e Cocozzone!”. L’ordinazione episcopale gli fu conferita dal card. Tarugi nella amata Vallicella il 1° settembre.
Da Fossano, dove dovette fermarsi alcuni mesi a causa di ricorrenti questioni tra il Duca e la Santa Sede, e dove iniziò ad esercitare il suo ministero episcopale lasciando memoria addirittura di miracoli operati con la sua preghiera e la sua benedizione, inviò ai saluzzesi il suo primo saluto: “una breve lettera scrittavi con l’intimo affetto del cuore, per chiaro testimonio e pegno del sincero amore che vi portiamo, come padre ai figli”, nella quale presentava il suo programma: “Procureremo di visitare gli infermi, consolare gli afflitti, sollevare i bisogni dei poveri secondo le nostre forze”. Dichiarava, inoltre, la sua volontà di dialogare con tutti “in udienze facili e pronte”, di amministrare la giustizia temperando il rigore con equità e dolcezza; il suo impegno nella predicazione e nella catechesi ed il suo desiderio di veder rifiorire quella comunità cristiana nella frequenza ai sacramenti. E concludeva: “S’introdurrà anche l’Oratorio, conforme al modo e stile usato in Roma, in Napoli e in altre principali città d’Italia”.
Giunto a Saluzzo, indisse il Sinodo diocesano, istituì il Seminario, iniziò la Visita Pastorale applicando le disposizioni del Concilio di Trento con festosità e mitezza filippine, si dedicò al ricupero dei Valdesi e degli eretici ottenendo in questo campo conversioni cospicue: tra gli altri, il nipote di Calvino, che divenne carmelitano col nome di fra Clemente.  Predicò incessantemente, come aveva promesso e come lo ritrae la pala del Borgna sull’altare a lui dedicato nella cattedrale di Saluzzo. Colse ogni occasione per annunciare la Parola di Dio, prese spunto da ogni circostanza: come quando, trovandosi a Belvedere Langhe, improvvisò: “Che cosa pensate voi che sia Belvedere? Forse vedere una Milano tanto popolata e mercantile? Forse una Venezia fondata in mare? O forse una Napoli con tanti bei dintorni? Sapete che cos’è il Belvedere? Il vedere Dio faccia a faccia, il vedere l’umanità di Cristo Redentore con le piaghe nelle mani, nei piedi, nel costato, sofferte con tanta carità per amore nostro; il vedere la Santissima Vergine sua madre…tanti angeli e santi in Paradiso. Questo, anime mie, è il Belvedere: e a questo dobbiamo aspirare tutti, prendendo i debiti mezzi che sono la confessione e penitenza dei peccati e l’osservanza della divina legge”.
Innumerevoli furono le opere di rinnovamento spirituale e di fattiva carità da lui compiute nello spazio di poco più di un anno. Stupisce che tale mole di lavoro sia stata compiuta in un tempo tanto breve da un uomo talmente dedito alla preghiera che, talora, inginocchiato nella sua stanza, non si accorgeva che qualcuno vi passava, e che era capace di dedicare anche cinque o sei ore continuate all’adorazione estatica del SS. Sacramento. La dignità episcopale non aveva per nulla modificato il suo tenore di vita appreso alla scuola di Padre Filippo: volle per sé niente più dello stretto necessario; la sua mensa era semplicissima, ma mai mancò di invitarvi ogni giorno almeno due poveri, e quattro nei giorni festivi; scelse per sé nel Palazzo le stanze più disagevoli, e trasformò la sua Casa - nella quale abitava anche un mendicante conosciuto a Roma e portato a Saluzzo - in un modello di comunità, dedita al lavoro, alla preghiera ed alla meditazione, alla celebrazione della Messa ed anche al silenzio in certe ore della giornata. Ad una sola ricchezza mons. Ancina non potè rinunciare: la sua biblioteca, composta - come quella di Padre Filippo - di circa quattrocento volumi, tra i quali figuravano opere su tutte le scienze ecclesiastiche, libri di medicina, di storia naturale, di letteratura.
La sua opera di riforma del clero, dei religiosi, del laicato cristiano, fu interrotta dalla morte repentina: un sospetto avvelenamento - a cui non doveva essere estraneo un frate di vita dissoluta, colpito dai provvedimenti del santo Vescovo - pose fine alla sua esistenza terrena il 30 agosto del 1604. La sua Chiesa lo pianse con immenso affetto e ne conservò un riconoscente ricordo. L’ultimo frammento uscito dalla penna del Beato Ancina esprime, ancora in forma poetica, il grande anelito che sostenne tutta la sua vita e la sua azione apostolica, la sete di Dio alla quale non fu mai estraneo quel desiderio di martirio che P. Giovenale aveva alimentato alla fervida scuola di P. Filippo:
“Signore, io son contento / soffrir pena e tormento / purchè sia certo / che giovi all’alma mia. // E qual grazia maggiore / o più sublim favore / venir mi puo’ dal Cielo / che di squarciarmi il velo. // Il velo che m’adombra / il corpo è che m’ingombra / sicchè a me non riluce / l’alta Divina Luce. // Venga dunque martìre, / conforme al mio desire / struggami ferro e fuoco, / questo ancor fia poco. // Ch’al ben di gloria eterna / per quel ch’io mi discerna / non è patir condegno / di pur’uomo santo e degno".
Merita ancora ricordare, in questo rapido sguardo posato sulla insigne figura del nostro Beato confratello, la fraterna amicizia che lo legò a san Francesco di Sales, “gemma della Savoia" il quale concluse i suoi giorni, consunto dalle fatiche apostoliche, il 28 dicembre del 1622, l’anno della canonizzazione di San Filippo Neri. Francesco non aveva conosciuto personalmente Padre Filippo; era stato però a contatto a Roma, nel 1598-99, con l’ambiente di Padre Filippo; visitando frequentemente la Vallicella conobbe e strinse amicizia particolarmente con alcuni tra i primi discepoli del Santo: il cardinale Cesare Baronio, P. Giovanni Giovenale e P. Giovanni Matteo Ancina, P. Antonio Gallonio. Non è senza questi incontri e la stima maturata da Francesco per l’ambiente vallicelliano che la “Sainte Maison” da lui fondata a Thonon, nel Chiablese, sia stata eretta da Clemente VIII nel 1598 “iuxta ritum et instituta Congregationis Oratorii de Urbe” e che la Casa di cui Francesco era nominato primo Preposito abbia avuto il cardinale Baronio come protettore.
L’impegno svolto dal Sales al servizio di una vastissima direzione spirituale - nella profonda convinzione che la via della santità è dono dello Spirito per tutti i fedeli, religiosi e laici, uomini e donne - fece di lui uno dei più grandi direttori spirituali di tutti i tempi. E la sua azione, che ebbe nel dialogo, nella dolcezza, nel sereno ottimismo il proprio fondamento, consuona mirabilmente con la proposta spirituale di San Filippo Neri e della scuola oratoriana, per l’innata sintonia che le opere del Sales evidenziano.
Fatto vescovo di Ginevra nel 1602, contemporaneamente alla nomina dell’Ancina, la corrispondenza tra i due Pastori fu il tramite del rapporto; ma non mancò un incontro memorabile che colmò di gioia i cuore di entrambi. E’ lo stesso Francesco di Sales a ricordare questo evento nell’Elogio che, su mandato di papa Paolo V, preparò per la causa di beatificazione dell’amico: essendo venuto a Torino, in visita al Duca di Savoia - suo sovrano, poiché lo Stato Sabaudo comprendeva anche il Chiablese - volle incontrare mons. Giovenale: “Per salutarlo mi discostai dal mio cammino e mi diressi verso Carmagnola, dove il vescovo stava compiendo la visita pastorale”. Era il 3 maggio del 1603, festa della Invenzione della Santa Croce: invitato dal confratello a tenere un sermone, parlò con tanto fervore che Giovenale, congratulandosi ed alludendo al casato del Sales, gli disse: “Vere tu es Sal"; e Francesco, alludendo con arguzia ed umiltà al nome della diocesi di cui l’Ancina era vescovo, rispose: “Immo tu es Sal et Lux. Ego vere neque sal neque lux”.
Subito dopo la partenza da Roma, dove aveva iniziato lo stretto legame di amicizia con P. Giovenale, Francesco di Sales già gli aveva scritto da Torino il 17 maggio 1599: “Di tutti i successi segnalati sempre darò conto a Vostra Paternità Molto Reverenda, ed anche di me stesso, come di cosa assolutamente sua”; e non tralasciava occasione per manifestare ad altri la sua stima per l’Ancina, come ricorda il Priore di Bellavaux scrivendo al neo Vescovo di Saluzzo: “Il grande amore che [mons. di Sales] porta a Vostra Signoria Reverendissima si scopre in questo: che parla di Lei con un affetto ed una passione grandissima, rallegrandosi d’avere presto a vederla e abbracciarla in santa carità; dicendo arditamente a tutti che è figlio di V.S. Rev.ma e che lui stesso l’ha fatta Vescovo, avendolo proposto prima d’ogni altro a Sua Santità”. Alla Signora di Chantal, in morte di Giovenale, lo stesso Francesco di Sales scriveva: “Monsignor Vescovo di Saluzzo, uno dei miei più intimi amici, e dei più grandi servi di Dio e della Chiesa che fosse al mondo, è passato a miglior vita poco tempo fa con incredibile rincrescimento del suo popolo che non ha goduto dei suoi travagli che un anno e mezzo”.
Nell’Elogio citato, il vescovo di Ginevra additò nell’amico un modello esemplare della rinnovata azione pastorale promossa dal Concilio Tridentino, e pose in evidenza, insieme alle doti oratorie dell’Ancina, la sua introspezione spirituale, il dono delle guarigioni e l’entusiastico giudizio dei contemporanei. L’Elogio si chiude con una dichiarazione preziosa: “Non memini me vidisse hominem qui dotibus, quas Apostolus apostolicis viris tantopere cupiebat, cumulatius ac splendidius ornatus esset”: non ricordo di aver visto un uomo più abbondantemente e splendidamente ornato di tutte quelle doti che l’Apostolo sommamente desidera per gli uomini apostolici.
“Nella storia della santità post-tridentina - si legge in un articolo apparso su una diffusa Rivista italiana di pastorale - il beato Ancina occupa un posto di notevole rilievo. L’auspicabile pubblicazione delle sue opere renderebbe un importante servizio alla conoscenza di quell’epoca. […] L’Ancina è sicuramente un profeta ed un genio dell’evangelizzazione-comunicazione, nella quale diede ampio spazio alle arti, facilitando la convocazione delle classi umili nel convito universale della cultura, della socializzazione ludica e della pietà evangelica”.

Autore: Mons. Edoardo Aldo Cerrato CO

 


 

Le tentazioni di un giovane ricco: potremmo chiamarle così le varie opportunità che il mondo cinquecentesco offre al fossanese Beato Giovanni Giovenale Ancina. Innanzitutto le soldatesche (prima spagnole e poi francesi) che stazionano in città e che certamente non sono una scuola di modestia. Poi un’interessante proposta di matrimonio con una ragazza nobile e virtuosa che per di più (particolare non trascurabile) porta in dote duemila scudi. Infine l’opportunità di fare carriera a Roma, con la “raccomandazione” di un cardinale. E’ un “Dies irae”, ascoltato in un chiesa di Savigliano, a far cambiare rotta al promettente medico ventisettenne (che ha anche conseguito una splendida laurea in Filosofia) e ad orientarlo verso il sacerdozio. A Roma resta affascinato da “un certo padre Filippo, stupendo per molti rispetti”, che altri non è che San Filippo Neri, il quale dopo averlo fatto sospirare non poco lo accoglie, insieme al fratello Giovanni Matteo, nella sua congregazione. Diventato sacerdote, inizia a Roma il suo ministero, (dove tra l’altro si interessa con passione alla fondazione della diocesi di Fossano) e poi accompagna San Filippo a Napoli, dove vive i dieci anni più belli del suo sacerdozio: raccoglie frutti insperati di conversioni, le sue prediche sono talmente partecipate che le chiese napoletane non sono sufficienti a contenere tutti coloro che lo vogliono ascoltare. Ritorna a Roma per ordine di San Filippo, ma qui si accorge che sta correndo il grosso “rischio” di diventare vescovo. A “tradirlo” ed a metterlo in luce davanti a Clemente VIII, oltrechè la fama di uomo santo e di predicatore affermato, sembra sia proprio una predica che è chiamato a tenere davanti a Papa e Cardinali e che egli è costretto ad improvvisare, dato che ha dimenticato a casa gli appunti, frutto di una settimana di intenso lavoro e di ricerca biblica e patristica. Il risultato di quella predica “a sorpresa” è tale che il Papa non può più dimenticarsi di lui, che intanto, mentre prega e fa pregare che non gli capiti la “sventura” di diventare vescovo, abbandona la capitale e si mette a predicare in giro per l’Italia. Rintracciato e proposto per la sede episcopale di Mondovì, sceglie quella di Saluzzo (entrambe nel cuneese) perché più povera e difficile. Sa che qui la fede è minacciata non solo dall’eresia, ma soprattutto dalla scarsa preparazione di un clero, che in fatto di moralità e preparazione teologica lascia molto a desiderare. Sa che, in mancanza di adeguate guide spirituali, nel popolo di Dio sta venendo meno il fervore e lo slancio religioso. Ancina sarà vescovo di Saluzzo per pochi mesi appena: giusto il tempo per rimettere un po’ di ordine, rinvigorire la fede, introdurre la pratica delle Quarantore, favorire il culto all’Eucaristia, combattere l’eresia che dalla vicina Francia sta dilagando in Piemonte. Inaugura un nuovo stile episcopale, sostituendo il modello del vescovo-principe, molto comune nel XVI secolo, con quello del vescovo-pastore buono, in piena sintonia con lo stile evangelico. Sobrietà, penitenza, profonda pietà, austerità di vita, grande generosità verso i poveri, delicatezza e premure verso i malati: è questo il modo con cui il vescovo Ancina, precedendo con l’esempio, cerca di moralizzare il suo clero e cerca di ammaestrare il suo popolo. Non mancando, se necessario, di fare anche la voce grossa e di comminare sanzioni, come fa pochi giorni dopo il suo ingresso in diocesi, sospendendo dal ministero della confessione tutti i sacerdoti, ad eccezione dei parroci, e riservandosi di nominare solo quelli che se ne fossero resi degni. Nel suo essere cristiano e nel suo farsi pastore gli sono di modello San Filippo Neri, alla cui ombra si è formato, San Carlo Borromeo, suo contemporaneo, e san Francesco di Sales, che da Ginevra viene a Carmagnola, apposta per incontrarlo e confrontarsi con lui. Intanto predica, con lo stile che gli ha trasmesso San Filippo Neri: in chiesa, per strada, anche su una pista da ballo durante una festa patronale. E prega: ore e ore ininterrotte davanti all’Eucaristia, o nella sua camera davanti all’immagine della Madonna, così assorto e devoto che per richiamarlo alla realtà a volte occorre scuoterlo non poco. Muore il 30 agosto 1604, a due anni esatti dalla sua nomina episcopale ed a 17 mesi appena dal suo ingresso in diocesi, e la sua fine è avvolta dal mistero: fu avvelenato da chi non condivideva la sua azione riformatrice e il suo zelo apostolico? I sospetti cadono su un frate, cui il vescovo Ancina pochi giorni prima aveva rinfacciato la condotta immorale e minacciato sanzioni canoniche, che gli serve un misterioso vino il giorno di San Bernardo (20 agosto), durante il pranzo che i frati del convento di Saluzzo hanno preparato per il vescovo. Fatto sta che i disturbi nel vescovo cominciano a manifestarsi subito dopo pranzo e muore dieci giorni dopo, tra lancinanti dolori. Nessuno ha interesse o vuole approfondire subito quel sospetto e su tutto viene steso un velo pietoso, per non suscitare un vespaio a disonore del convento. Ma la conferma che ci sia del vero in questo presunto “giallo” viene proprio dalla Postulazione, che in un primo tempo cerca di impostare la causa di beatificazione dimostrando il martirio dell’Ancina “per il veleno datogli per adempiere agli obblighi suoi episcopali”. Ovvio che non ci riesca per il troppo tempo trascorso, per le mancate indagini effettuate a tempo debito, per la scomparsa degli eventuali testimoni e perfino per la mancanza del nome del sospetto assassino. Ciò non impedisce tuttavia a Giovanni Giovenale Ancina di giungere ugualmente alla gloria degli altari per l’ordinaria via del riconoscimento dell’esercizio eroico delle virtù cristiane, sancito dalla beatificazione avvenuta il 9 febbraio 1890 per bocca di papa Leone XIII. Mentre lui, non dimenticandosi di essere stato medico, continua a prendersi cura di quanti gli affidano i propri malanni, come testimoniano le numerose relazioni di grazie ricevute.

PREGHIERA

O Dio, che nel beato Giovanni Giovenale Ancina, Vescovo, hai formato un eminente predicatore della tua parola e un pastore esemplarmente zelante, concedi per sua intercessione di custodire la fede che ha trasmesso con l’insegnamento e di seguire la via che ha tracciato con l’esempio. Per Cristo nostro Signore.

Signore, che nel beato Giovanni Giovenale Ancina, posto a servizio del tuo popolo, ti sei fatto medico delle anime e dei corpi, concedici per sua intercessione di godere sempre la salute spirituale e corporale. Per Cristo nostro Signore.


Autore:
Gianpiero Pettiti

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Aggiunto/modificato il 2014-01-23

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