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Servo di Dio Quintino Sicuro Sacerdote eremita

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Melissano (Lecce), 29 maggio 1920 - Monte Fumaiolo (Forlì), 26 dicembre 1968

Nacque a Melissano, in provincia di Lecce, il 29 maggio 1920, quinto di cinque figli, da una famiglia di modesti agricoltori. All’età di 12 anni aveva espresso il desiderio di farsi frate, ma non era riuscito a superare l’esame di ammissione; così aveva deciso di frequentare l’Istituto Tecnico Industriale di Gallipoli. Nel ’39 s’era quindi arruolato nella Guardia di Finanza. Poco alla volta aveva compreso che la sua strada era un’altra e, a 27 anni, lasciò la divisa di vicebrigadiere per entrare nel convento dei Frati Minori di Ascoli Piceno. Vi restò due anni. Nell’autunno del ’49 giunse all’eremo di San Francesco presso Montegallo, sentendosi chiamato da Dio alla vita eremitica. Da Montegallo, quattro anni dopo, si trasferì sul monte Fumaiolo, prendendo in custodia l’eremo di S. Alberico. È morto il 26 dicembre 1968.


Non è una storia molto comune, anzi è probabilmente unica, l’esperienza di vita vissuta dal vicebrigadiere Quintino Sicuro che abbandonò la giubba grigia della Guardia di Finanza per vestire i poveri panni del prete eremita. Qualcuno dei lettori forse arriccerà il naso. Un eremita, e per di più sacerdote? Appare come una contraddizione evidente. Ma nulla, in verità, nella vicenda di questa singolare figura, di cui è in corso da alcuni anni la causa di beatificazione, si presenta con i caratteri dell’ovvietà, della scontatezza.
Don Quintino riposa ora in un sarcofago di arenaria, da lui stesso scavato dentro la roccia, appena fuori dall’eremo in cui visse, sul Monte Fumaiolo. Ma il suo spirito è vivo, la sua testimonianza attrae ancora con la forza profetica di una vita, come la sua, interamente donata al Signore. Una vita silenziosa che grida al mondo intero, col suo stesso silenzio, il primato di Dio.
La sua storia comincia da lontano, da un paese del Salento, Melissano, in provincia di Lecce. Lì Quintino Sicuro era nato, il 29 maggio 1920, quinto di cinque figli, da una famiglia di modesti agricoltori. All’età di 12 anni aveva espresso il desiderio di farsi frate, ma non era riuscito a superare l’esame di ammissione; così aveva deciso di frequentare l’Istituto Tecnico Industriale di Gallipoli. Nel ’39 s’era quindi arruolato nella Guardia di Finanza.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale il giovane salentino partecipa alle operazioni belliche sul fronte greco-albanese, salvandosi miracolosamente dall’eccidio di Cefalonia; in seguito come partigiano prende parte alla guerra di liberazione nazionale. Viene catturato dai nazifascisti, ma riesce a evadere in maniera rocambolesca dal carcere e, travestito da prete, raggiunge in bicicletta l’Italia del Sud già liberata.
Dopo la guerra Quintino riprende regolarmente servizio nella Guardia di Finanza. È un giovane coraggioso e volitivo, dal carattere esuberante e incline alle passioni, non molto dissimile da tanti giovani d’oggi. Gli piace vestire bene ed essere sempre alla moda, lasciandosi pure travolgere da alcune avventure sentimentali, finchè non conosce Silvia, una giovane maestra, con cui si fidanza e fa progetti di matrimonio.
Ma c’era come un’inquietudine in fondo al suo cuore che non lo lasciava mai, un tarlo interiore che non gli dava pace. Poco alla volta egli comprende che la sua strada è un’altra e, a 27 anni, lascia la Guardia di Finanza per entrare nel convento dei Frati Minori di Ascoli Piceno.
Vi resta solo due anni. Nell’autunno del ’49 giunge all’eremo di San Francesco presso Montegallo. Si sente chiamato a essere solo con Dio, alla più completa solitudine, che solo la vita eremitica può dare. Da Montegallo, quattro anni dopo, si sposta verso il monte Fumaiolo, prendendo in custodia l’eremo di S. Alberico.
Quintino si lega intimamente a questo luogo, che ricostruisce e consacra con il suo esempio, il suo apostolato silenzioso, le dure penitenze, la straordinaria carità. Vi arriva nel ’54, quando l’eremo è solo un rudere abbandonato: in pochi anni lo rimette in piedi, pietra su pietra, con le proprie mani, per farne un luogo dove tutti possano ritemprare lo spirito e cercare, trovandolo, l’incontro con Dio.
“Mi darò tutto al mio Signore, dissi, ma tu, Madre Celeste, non mi abbandonare. Mi sforzerò di salire, se tu mi darai una mano”. Era una specie di patto, un’intesa segreta, fra lui e Maria. A lei, che amava profondamente, don Quintino avrebbe attribuito la grazia del suo sacerdozio. Ci pensava da molto tempo, ma oramai era molto avanti negli anni, e in più, non avendo fatto studi letterari, la sua cultura era piuttosto scarsa. Si impegnò nello studio fino allo spasimo e il 30 novembre 1959 venne ordinato sacerdote. Per l’occasione volle recarsi a Lourdes per ringraziare la Madonna, facendo tutto il percorso a piedi.
In questo modo si realizzava la sua originale, duplice vocazione: di prete ed eremita. Tanti, giovani soprattutto o persone in ricerca, salivano fino al suo eremo per parlare con lui, per confessarsi e avere dei consigli. Don Quintino diventa un punto di riferimento per molti.
“Tutta la vita moderna – egli diceva – è un anelito verso Dio, anche se inconscio o non confessato o rinnegato. Il desiderio dell’uomo di oggi di conoscere il futuro, l’ansia di andare sempre più veloce, più lontano e più in alto, l’affanno di scoprire cose nuove, l’ossessione di rendere la vita sempre più comoda e l’aumentata insoddisfazione di tutto, per me sono la manifestazione dell’anelito, del bisogno che l’uomo ha di Dio; gli sforzi che fa, sono per raggiungerlo”.
In tanti salgono all’eremo attratti dalla presenza del prete eremita, dal mistero che promana la sua vita tutta raccolta in Dio. In quella freddissima gola del Monte Fumaiolo, a oltre mille metri di altezza dell’Appennino romagnolo, c’era un uomo che dalla mattina alla sera, nel silenzio del suo eremo, rendeva continuamente grazie a Dio. Un uomo che non dormiva su un materasso, ma sopra una dura tavola, avendo una pietra come cuscino, che viveva della carità degli altri e, spesso, masticava fili d’erba per placare i morsi della fame. Un uomo che nel suo eremo accoglieva tutti, peccatori e sbandati, e per ciascuno aveva una parola buona, che non sapeva disquisire di filosofia o teologia, né conosceva Kierkegaard, o Maritain, o Chardin, però viveva il Vangelo. “Mettiti davanti a Dio come un povero: senza idee, ma con fede viva. Rimani immobile in un atto d’amore dinanzi al Padre. Non cercare di raggiungere Dio con l’intelligenza: non ci riuscirai mai; raggiungilo nell’amore: ciò è possibile”.
La mattina del 26 dicembre 1968 don Quintino doveva celebrare una Messa al Monte Fumaiolo e benedire l’impianto della sciovia, che si inaugurava proprio quel giorno. Una macchina andò a prenderlo alle scalette di S. Alberico, senonchè la strada era tutta ghiacciata poichè durante la notte era nevicato. La vettura arrancava a fatica, e più di una volta i passeggeri furono costretti a scendere e a spingerla sulla strada lastricata di ghiaccio. Quando finalmente arrivarono a destinazione, don Quintino ebbe appena il tempo di caricarsi lo zaino sulle spalle che si accasciò improvvisamente a terra, stroncato da un infarto.
Il 1° novembre 1985 il Vescovo di Cesena e Sarsina, Mons. Luigi Amaducci, ne ha introdotto in sede diocesana la Causa di Beatificazione e Canonizzazione, processo che si è concluso il 28 agosto 1991, quindi due anni dopo, nel 1993, gli atti processuali sono stati trasferiti a Roma, presso la Congregazione per le cause dei Santi, in attesa di vederlo presto elevato, come si spera, all’onore degli altari.


Autore:
Maria Di Lorenzo

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Aggiunto/modificato il 2003-07-31

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