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Servo di Dio Antonio Maria Roveggio Vescovo missionario

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Cologna Veneta, Verona, 23 novembre 1858 – Berber, Sudan, 2 maggio 1902


La sua vita, breve, si svolge praticamente tutta nella seconda metà dell’Ottocento, epoca in cui il martirio ancora era considerato dalle anime fervorose come la suprema dimostrazione di amore verso Dio: una grazia da umilmente chiedere e coraggiosamente perseguire. Anche lui, Antonio Maria Roveggio, chiede dunque la grazia di morire martire, addirittura con un pellegrinaggio a Lourdes ed a Paray-Le-Monial, centro della devozione al Sacro Cuore. E non viene esaudito. O, meglio, non nel senso tradizionalmente inteso dello spargimento del sangue. Nasce a Cologna Veneta nel 1858, in una famiglia talmente religiosa da considerare ancora la vocazione sacerdotale come uno specialissimo dono di Dio che non tutte le famiglie si possono meritare. Così non trova alcuna opposizione nei genitori quando decide di entrare in seminario; così come non la trova quando, a pochi mesi dall’ordinazione,decide di entrare tra i Comboniani. Anzi, è la stessa mamma a spronarlo nel seguire la vocazione missionaria, quando lo vede tentennare di fronte alle pressioni che su di lui esercitano i sacerdoti diocesani, che non si rassegnano a vederlo partire missionario. Con la benedizione di mamma entra così a far parte dei Comboniani nel 1884, in un momento, umanamente parlando, davvero poco felice per il giovane istituto: orfano da appena tre anni del suo fondatore Mons. Comboni, falcidiato dalle febbri e dalla malaria, pressato da problemi interni ed esterni che addirittura fanno dubitare della sua sopravvivenza. E don Roveggio si innesta tra i Comboniani proprio nel momento della loro maggior difficoltà esistenziale, buttandosi a capofitto nell’attività missionaria  con tutto l’entusiasmo dei suoi trent’anni e con l’ardore che si sente in cuore per la diffusione del Regno di Cristo. La sua vita è da subito destinata a ricalcare nei tratti fondamentali la vicenda missionaria del Comboni. Anche Roveggio parte per l’Africa e raggiunge l’Egitto, in attesa che per i missionari si aprano le porte dell’Africa Centrale. Qui mette a frutto l’amore per la terra che i genitori contadini gli hanno trasmesso: la promozione sociale degli indigeni passa attraverso le coltivazioni, l’allevamento e addirittura un potente mezzo di estrazione di acqua irrigua dal Nilo, che in pochi anni mettono la popolazione non solo in grado di provvedere al proprio sostentamento, ma addirittura di avviare un promettente commercio di prodotti al Cairo. Nel 1895, anche per lui, arriva la nomina a Vicario Apostolico dell’Africa Centrale, la stessa che fu di Mons. Comboni: Roveggio ha solo 37 anni e 10 di sacerdozio. Rientra a Verona per l’ordinazione episcopale, che avviene ad aprile dello stesso anno, ma tre mesi dopo è di nuovo in Egitto, a proseguire la sua opera evangelizzatrice ed a premere per poter entrare in Sudan: vuole riprendere da dove la malaria ha ucciso il Comboni, sogna di ripristinare quanto la rivoluzione madhista ha distrutto in quegli anni. E’ un missionario che sa andare al passo con i tempi: grazie all’animazione missionaria che ha promosso qua e là per l’Europa, oltre a reclutare nuove promettenti vocazioni per il suo istituto riesce anche a raccogliere fondi sufficienti per far realizzare in Inghilterra un battello dalla chiglia piatta, adatto cioè a comodamente navigare sul Nilo. Con questo, significativamente battezzato “Redemptor”, ne percorre le rive e ne evangelizza le popolazioni, sulle tracce delle missioni inaugurate dal Comboni e dai suoi primi seguaci, puntando al sud del Sudan e strizzando un occhio ai confini dell’Uganda che non gli sarà concesso di varcare. E non solo per motivi politici, ma soprattutto perché la malaria minaccia anche lui ed il suo equipaggio, riducendo il suo battello ad un ospedale galleggiante, del quale Mons. Roveggio è l’infaticabile infermiere, fino al contagio. “Molto fa chi molto ama”, scrive, “molto ottiene chi molto soffre”. Sopravvive alla malaria, ma muore in treno per un malore improvviso il 2 maggio 1902, nel viaggio che da Khartoum lo riporta al Cairo: non ha versato il sangue, ma donato tutta la sua vita per le missioni. E, di anni, Mons. Roveggio ne ha solo 43: ancor meno del Comboni che era stato stroncato a 50 anni. “Dalla mia vita dipende la salute di tante anime”, aveva scritto, “tanto più sarò santo,tante più ne salverò”. Nel 1954 la Chiesa ha avviato la causa di beatificazione di Mons. Roveggio e i Comboniani sperano che anche nella gloria degli altari possa seguire il loro fondatore.

Autore: Gianpiero Pettiti

 


 

La sua fu una vita breve, ma vissuta intensamente al servizio di Dio e dei popoli africani. Antonio Maria Roveggio nacque il 23 novembre 1858 a Cologna Veneta, provincia di Verona ma diocesi di Vicenza.
Il clima religioso familiare e parrocchiale, che da secoli contraddistingue il cattolico Veneto, favorì il sorgere della sua vocazione sacerdotale, il padre Giacomo Roveggio e la madre Dorotea Cadore ne furono ben lieti, perché videro in ciò la benedizione di Dio sulla loro casa.
Entrò nel Seminario vescovile di Vicenza, dove fece tutti gli studi necessari e accrescendo con l’entusiasmo della gioventù, il suo ideale sacerdotale e missionario, sorto sin dagli anni della teologia, fu ordinato sacerdote il 29 marzo 1884.
Dopo un breve periodo trascorso in diocesi, il 4 dicembre 1884 entrò nell’Istituto delle Missioni Africane di Verona, i cui membri sono chiamati “Figli del Sacro Cuore di Gesù”, ma più conosciuti come ‘Missionari Comboniani’ dal loro fondatore san Daniele Comboni (1831-1881).
Il periodo in cui entrò nella Congregazione, era denso di difficoltà, per la prematura morte a 50 anni, del vescovo fondatore, inoltre le promettenti stazioni missionarie aperte dal Comboni in Sudan, venivano travolte e chiuse dalla Rivoluzione del Mahdi Muhammad ibn Abdallah (1860-1920), il nuovo profeta dell’Islam, intenzionato a portare tutto il mondo a Maometto.
Le sue armate impegnate nella solita ‘guerra santa’ arrivarono da Khartum fino ad Assuan, con la velocità e gli effetti di un uragano.
Le missioni comboniane di Khartum, El Obeid, Malbes e Berber furono distrutte e la stessa tomba del fondatore fu violata e le ossa disperse; i sacerdoti e suore che non erano riusciti a scappare, rimasero suoi prigionieri per una dozzina d’anni.
Solo il 2 settembre del 1898, i mahdisti furono sconfitti a Kereri dal generale inglese Horatio Kitchener. Per tutto il tempo della Rivoluzione (1881-1898) i missionari e gli europei in genere, non poterono più entrare nel Sudan e i comboniani degli Istituti di Verona e della Casa di acclimatazione del Cairo, approfittarono di questo riposo forzato per riorganizzarsi.
Questa era la situazione della nuova Istituzione, quando il giovane sacerdote Antonio Roveggio prese a farne parte; con il successore di mons. Daniele Comboni, mons. Sogaro, i “Figli del Sacro Cuore di Gesù” divennero Congregazione religiosa con membri, sacerdoti e fratelli laici.
Don Antonio Roveggio fece la sua professione religiosa a Verona il 28 ottobre 1887 e il successivo 7 dicembre era già partito per l’Egitto, dove si erano consolidati i comboniani, in attesa che si riaprissero le porte dell’Africa Centrale.
Per otto anni, dal 1887 al 1895 svolse il suo ministero missionario al Cairo, impegnato nella formazione cristiana e sociale degli africani, accolti nella “Colonia antischiavista Leone XIII” di Gesira; guidando inoltre i primi religiosi comboniani in Africa, nella non facile convivenza con i missionari più anziani non religiosi.
L’8 febbraio 1895 a soli 37 anni, gli arrivò la nomina a Vicario Apostolico dell’Africa Centrale, carica già rivestita dal 1877 dal fondatore Daniele Comboni.
Fu consacrato vescovo il 21 aprile 1895 nella Cattedrale di Verona e nel luglio successivo ritornò in Egitto, impegnato ad elaborare e preparare un suo programma missionario, mentre stavano per riaprire le porte del Sudan; pose la sua residenza ad Assuan e poi dopo la sconfitta dei mahdisti nel 1898, si spostò nel 1900 a Ondurman - Khartum in Sudan, stabilendo i punti base per ulteriori imprese missionarie.
Intraprese in seguito un viaggio di animazione missionaria in tutta Europa, che diede fruttuose nuove vocazioni; fu in pellegrinaggio a Lourdes e a Paray-le-Monial il centro del culto al Sacro Cuore, propagato da santa Margherita Maria Alacoque; inoltre con i fondi raccolti poté acquistare il battello fluviale “Redemptor”, per navigare sul Nilo.
Intraprese due memorabili spedizioni missionarie, per portare il Vangelo alle tribù dei più sperduti angoli del Vicariato. Con la prima, nel febbraio 1901 fondò la stazione di Lul tra gli Scilluk nel Sudan Meridionale; con la seconda nel gennaio 1902, arrivò fino al confine con l’Uganda, con l’intento di aprire una missione fra i Lotuko, ma non ci riuscì, perché non ottenne l’autorizzazione governativa.
Vivamente addolorato, dovette rientrare a Khartum, in attesa di un’occasione migliore. Qualche mese dopo, durante il viaggio in treno da Khartum a Il Cairo, mons. Roveggio, stremato dalle fatiche, fu colpito da malore e morì solitario il 2 maggio 1902 a soli 43 anni, mentre il treno si fermava a Berber in territorio sudanese.
Consumò così la sua vita per la redenzione degli africani, come aveva sempre desiderato e chiesto alla Vergine durante il pellegrinaggio a Lourdes; contento di seminare nel pianto, perché altri raccogliessero nella gioia.
La causa di beatificazione del Servo di Dio Antonio Maria Roveggio, fu aperta il 16 dicembre 1954.


Autore:
Antonio Borrelli

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Aggiunto/modificato il 2012-07-09

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