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Venerabile Maria Cristina Ogier Laica

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Firenze, 9 marzo 1955 - 8 gennaio 1974

Maria Cristina Ogier nacque a Firenze il 9 marzo 1955. Nel 1959 le fu diagnosticato un tumore alla base encefalica; a causa della malattia, fu ammessa alla Prima Comunione a sei anni. Accettò serenamente la sua malattia prodigandosi per aiutare il prossimo. Visse la sua vita intensamente in costante e prodigiosa comunione con Dio, mettendosi al servizio dei sofferenti al limite delle sue possibilità, realizzando opere assistenziali e strutture residenziali per disabili, anziani e bambini, in Italia e all'estero, che esistono tuttora. Fece allestire un battello fluviale attrezzato a piccolo ospedale, che inviò nel Rio delle Amazzoni e che porta il suo nome. Fu lei a esortare i genitori, anche dopo la sua scomparsa, a fare qualcosa per aiutare i più bisognosi; in particolare, incoraggiò il padre, primario dell’ospedale Careggi di Firenze, a intervenire per occuparsi dei bambini che rischiavano di non nascere per via dell’aborto. Morì a Firenze l’8 gennaio 1974, a diciannove anni non ancora compiuti. Il 20 maggio 2023 papa Francesco autorizzò la promulgazione del decreto sulle virtù eroiche di Maria Cristina, i cui resti mortali riposano dall’8 gennaio 2023 nella basilica di San Miniato al Monte di Firenze.



Figlia del Professor Enrico Ogier, Primario dell’Ospedale Carreggi di Firenze, nacque il 9 marzo 1955 a Firenze. «Quando venne al mondo Maria Cristina – racconta la mamma – io e mio marito eravamo le persone più felici del mondo. Era così bella che medici e Suore della clinica la chiamarono “miss maternità”». La felicità dei suoi illustri genitori durò fino al 1959, quando Cristina cominciò a zoppicare... Dopo una lunga serie di visite e di esami clinici, arrivò la tragica risposta: “Tumore al cervello”. Nel 1960 è portata in Svezia dal Prof. Olivecrona, il quale presto disse che non si poteva operarla perché il tumore era al centro del cervello: «La piccola vivrà poco», concluse molto triste l’illustrissimo medico.

“Sì a Gesù”
Cristina soffre molto, eppure non perde la vivacità e la gioia di vivere. Cresce e va a scuola dove si distingue in mezzo ai compagni. Ama il mare, la montagna. È intelligentissima e sportiva. Studia con profitto egregio sia alle elementari che alle medie e ancor più al liceo. Riuscirà a sostenere l’esame di maturità con un anno di anticipo, meravigliando tutti.
Nel 1961, a sei anni, a causa della malattia, il Parroco Don Giancarlo Setti la ammette alla Prima Comunione e la prepara lui stesso. Cristina è molto felice, perché adesso potrà accostarsi a Gesù Eucaristico, quando vorrà. Mentre le provano l’abito bianco per la festa, dice alla sua mamma: «Questo vestito lo voglio perché devo essere bella per Gesù. Ma non voglio regali. Dillo a tutti: mi diano dei soldi, perché io voglio aiutare molti poveri per amore di Gesù».
L’accontentano, anche se qualche regalo arriva lo stesso. Qualche mese dopo, Cristina racconta alla mamma: «Questa notte ho sognato Gesù. Ero in chiesa e il Crocifisso mi ha detto: “Cristina, toglimi i chiodi e la corona di spine”. Io ho fatto ciò che Lui voleva e poi l’ho portato a casa nostra. Gesù mi ha detto: “Va’, sei guarita”».
In quei giorni, infatti, risulta molto migliorata. I suoi sperano che sia guarita davvero. Ma “il male” subdolo continua a danneggiare il suo organismo. Va a Lourdes e ritorna che sta bene. Un anno dopo, Cristina spiega: «Mamma, ho sognato ancora Gesù e mi ha detto di portare la croce con Lui, per salvare il mondo... Io gli ho detto di sì. Se tu, mamma, avessi visto il suo Volto, gli avresti detto di sì anche tu».
Riprende a zoppicare e a soffrire. Ma non si lamenta mai, si preoccupa solo di non essere di peso ai suoi genitori, di aiutare gli altri, i bambini, i vecchietti, i poveri. In ognuno di loro, davvero “alla lettera”, vede Gesù (cf. Mt 25,40). Dà tutto quello che ha in elemosina. Diventata un po’ più grande va a visitare i vecchietti nei ricoveri: li lava, imbocca i paralitici, compera per loro i vestiti, resta con loro a far compagnia a lungo.
La mamma vuole comprarle una pelliccia nuova, ma Cristina rifiuta con energia: «Dammi, piuttosto, i soldi che vuoi spendere. Mi servono per i miei poveri». La mamma, in pellegrinaggio da un Santuario mariano all’altro, in cerca di guarigione per la figlia, le chiede di pregare anche lei per la sua guarigione. Cristina le risponde: «Ci sono tante persone che soffrono più di me: devo pregare per loro la Madonna».
Ogni anno va a Lourdes con i genitori. Sul treno, i malati più difficili e bisognosi sono i suoi prediletti. Non prova ribrezzo per le piaghe più ripugnanti. Nonostante una mano debole e una gamba semi-paralizzata, va continuamente dall’uno e dall’altro. Se poi alla sera, ha i piedi gonfi: «Non fa niente, l’ho fatto per Gesù che sulla croce aveva i piedi trafitti dai chiodi».

Un battello, una casa di riposo
Nel 1970 arriva a Firenze Padre Pio Conti, Cappuccino, medico e missionario in Amazzonia. Prima di ripartire, vuole specializzarsi con il Prof. Ogier, il padre di Cristina. La quale, a contatto con quel Religioso, scopre le missioni e comincia a raccogliere soldi e medicinali.
Dall’Amazzonia, Padre Conti scrive che avrebbe bisogno di una imbarcazione attrezzata per portare gli ammalati dai villaggi lungo il Rio delle Amazzoni al piccolo ospedale, in mezzo alla foresta. Aveva solo qualche canoa e il viaggio per i malati era troppo lungo e disagiato. Cristina si sente interpellata in prima persona. Scrive lettere agli amici. Si aggrappa al telefono fino a notte tarda. Chiede soldi a tutti, ai compagni di scuola, ai suoi familiari, ai colleghi di suo padre, a enti, a giornali. Per due anni lavora infaticabilmente.
Il suo entusiasmo per quell’opera contagia tutti. Invece di irritarsi, la gente rimane affascinata dal progetto per quanto sa dire Cristina, così giovane e bella e, purtroppo, così sofferente. Nelle fabbriche, gli operai e i datori di lavoro si tassano “per la barca di Padre Conti”. Quando ha la somma necessaria, con l’appoggio di una portuale di Livorno, Cristina va a Fiumicino a comprare l’imbarcazione. Con l’aiuto dell’armatora Costa, il 21 febbraio 1972, il battello dal porto di Livorno parte per l’Amazzonia: Cristina è felicissima.
Ora ha un altro progetto: soffre, andando nei ricoveri e vedendo tanti anziani soli e tristi, a volte sperduti. «Occorre – dice – per amore di Gesù trasformare i ricoveri in piccole case che siano delle famiglie per i vecchi soli e abbandonati. Voglio cominciare con una casa-famiglia a Firenze, poi faremo in altre città». Il 19 febbraio 1973, scrivendo a un amico infermo, dà di fatto il via alla sua opera. Non riuscirà a vederla realizzata, ma si impegneranno a portarla a termine i suoi genitori, con molti amici di Cristina, in sua memoria.

“Tutto per Te, Gesù”
Appena termina il Liceo classico a 18 anni, si iscrive a Medicina e si impegna a fondo nello studio, anche se soffre sempre di più e sa che deve presto morire. In un piccolo quaderno, annota i suoi colloqui con Gesù, la sua attesa dell’incontro definitivo con Lui.
«Grazie, Gesù, di avermi mostrato la Tua via e di condurmi per questa a Te. Ti amo, e la mia vita voglio che sia dedicata a Te e ai miei fratelli più poveri» (2 marzo 1972).
«Il mio amore per gli altri non deve avere confini, ma devo amare l’uomo di qualsiasi paese, nazione lontana o vicina. Amare nel Tuo amore, Gesù. Amare per ringraziarti del Tuo infinito amore verso di me» (5 marzo 1972).
«Gesù, ascoltami. Io ora vivo sognando il Paradiso e non vedo l’ora di giungervi per rivederti, o Gesù, mio unico immenso Amore» (18 ottobre 1972).
«Signore, non mi sento degna di soffrire, perché il soffrire è dei santi e io non mi sento santa e nemmeno buona, ma continuerò su questa strada, sulla strada delle piccole e grandi sofferenze che Tu mi mostri. Fa’ di me ciò che Tu vuoi, sappi che io ti amo, Gesù, e da Te accetto tutto, tutto quello che vuoi» (2 febbraio 1973).
Il 1° agosto 1973, scrive le sue ultime parole sul diario: «Gesù, Tu sai quanto ti amo e ho bisogno di Te. Aiutami in ogni attimo della mia vita. Ho paura del futuro, della vita stessa, ma non ho paura della morte che mi ricongiungerà a Te per sempre».
Nell’ottobre 1973, comincia a stare molto male. Con i suoi genitori, va ancora una volta a Stoccolma da Olivecrona, ma è un viaggio inutile. In novembre tenta una cura a Roma. Cristina non si regge più da sola: soffre, ma non si lamenta mai. Ha sete di preghiera, di Eucaristia, di intimità con Gesù.
Nonostante il dolore che la consuma, appare sempre giovane, bella, simpatica, sempre con il volto radioso e una grande voglia di vivere addosso: sembra ancora la ragazza più felice e più fortunata di Firenze. Sorride a tutti quelli che incontra. L’ultimo giorno dell’anno accetta di trascorrerlo in casa di amici, giocando e pregando e pure brindando al nuovo anno 1974, che sta per arrivare.
Si ricorda di possedere ancora un gruzzolo di soldi suoi. Che farne? Ella vuole andare povera da Gesù, con le mani vuote di ricchezze terrene ma colme di “grappoli di amore”. Manda cento mila lire in Amazzonia per le medicine e... il carburante del suo battello, dieci mila a un Istituto di spastici, duemila alla Città dei ragazzi presso Roma, mille al Santuario della Madonna in un paese della Toscana.
L’8 gennaio 1974 sembrò ancora un giorno normale. La mamma ha accompagnato Cristina in casa di parenti. Alle 18 di sera va a Messa a ricevere Gesù Eucaristico nella Comunione. Ogni volta si accosta a Lui come fosse l’ultima volta, il Viatico per la Vita eterna. Rientra in casa e si siede a tavola.
Con un’aria smarrita getta le braccia al collo della sua mamma, che se la stringe al cuore. Rimane all’istante fulminata da paralisi bulbare. Ha 18 anni e dieci mesi, di cui 14 trascorsi sulla croce con Gesù: una giovane vita come purissima offerta di amore con il Crocifisso, che oggi molti non vogliono più. Adorazione, obbedienza, espiazione, impetrazione per tutti. Servizio ai più poveri, prediletti da Dio. Come scrisse di Gesù, il Profeta Malachia (1,11), «oblatio munda», e noi diciamo «oblatio fecunda»: un’offerta pura, un’offerta feconda. La socialità più alta, l’apostolato più penetrante. Io conosco anime così, quasi sempre dimenticate, ignorate o disprezzate, ritenute “buone a nulla”, sprecate.
«Il mondo – scrisse Charles Péguy – non è salvato dai potenti, ma dalle anime sulla croce».

Autore: Paolo Risso

 


 

Alcuni mesi prima di morire, Maria Cristina, che era studentessa universitaria, aveva riferito in famiglia le infuocate discussioni abortistiche che si tenevano tra gli studenti. E pensando ai bambini che avrebbero perso la vita con l’aborto, aveva detto a suo padre: “Senti, babbo, sei o non sei un medico cristiano? Se non te ne occupi tu, di quei bambini, chi vuoi che se ne occupi?”. Quelle parole colpirono molto il professor Ogier, e dopo la morte della figlia divennero per lui un programma d’azione. Nel 1975 fondò il “Centro di aiuto alla vita” di Firenze, dedicandolo alla figlia che glielo aveva ispirato. Quel centro divenne modello di tutti gli altri sorti in seguito, che oggi sono una realtà straordinaria. Nel nostro Paese ce ne sono oltre 300 ed è stato calcolato che, dalla fondazione del primo, quello di Firenze, ad oggi, hanno salvato dall’aborto, quindi dalla morte, non meno di 130 mila persone.
Come giornalista, mi sono interessato di Maria Cristina la prima volta subito dopo il suo funerale, avvenuto a Firenze nel gennaio del 1973. Avevo letto sul quotidiano La Nazione che una folla immensa aveva partecipato alla cerimonia religiosa. Ero rimasto colpito. Tutta quella gente non era giustificata dal fatto che Maria Cristina era morta a soli 19 anni ed era figlia di un celebre medico.
Il giornale scriveva che quella folla era costituita prevalentemente da poveri, da ammalati, da emarginati amici della ragazza. Incuriosito, corsi a Firenze, incontrai i genitori di Maria Cristina, rimasi una mezza giornata con loro ascoltando una delle storie più belle e commoventi che mi sia capitato di incontrare nella mia lunga carriera di giornalista. Una storia positiva, edificante, esemplare, indimenticabile.
Ricca, giovane, bella, simpatica, sempre con il sorriso sulle labbra e una gran voglia di vivere, Maria Cristina, a 19 anni, sembrava la ragazza più felice a più fortunata di Firenze. Invece, sotto il sorriso, nascondeva un terribile dramma: dall’età di 4 anni aveva un tumore al cervello, che lentamente distruggeva la sua esistenza. Il male, già da tempo, le aveva semiparalizzato la mano e la gamba destra e provocava spesso dolori atroci, ma la ragazza non si lamentava mai. La sofferenza le aveva fatto scoprire Gesù, se ne era innamorata e viveva il proprio dramma in unione continua con Lui che, per amore degli uomini, aveva scelto di morire sulla croce. Nonostante la malattia, era impegnata in mille attività a favore dei poveri e dei sofferenti. E solo dopo la sua morte i familiari, i parenti, gli amici hanno scoperto, con stupore, l'incredibile attività assistenziale compiuta da quella ragazza semiparalizzata.
Maria Cristina visse la sua malattia in una sofferenza silenziosa, eroica, vivificata da una fede appassionata, da cristiana totale. E la cosa che mi colpì su tutto, nel lungo racconto che mi fece la madre della ragazza in quel mio incontro del 1973, sta nel fatto che non erano stati i genitori a dare alla figlia quella dimensione di vita profondamente cristiana che aveva.
“A Maria Cristina, io e mio marito non abbiamo in­segnato niente di tutto quello che ha fatto - mi disse quel giorno la signora Gina Ogier -. Io e mio marito siamo sempre stati cattolici, ma una volta non eravamo molto ferventi. Si andava alla messa ogni tanto, non ci si preoccupava dei problemi spirituali, il prossimo per noi era un estraneo. Conoscendo le condizioni di salute di Maria Cristina, cercavamo di distrarla, volevamo accontentare tutti i suoi desideri, volevamo che si divertisse.
“Fin da bambina, Maria Cristina era molto vivace. Amava lo sport ed era una brava nuotatrice. Le piaceva il mare, la montagna. Da ragazza, amava il teatro, la musica, andava spesso all'opera e conosceva diversi artisti. Era intelligente e studiava molto. Ha dato la maturità con un anno di anticipo e a pieni voti. Si era iscritta a medicina perché voleva diventare medico, come il padre. Accanto a tutto questo, però, aveva grandi ideali di bontà, di altruismo, di volontariato dei quali né io né suo padre le avevamo mai parlato”.
E scendendo in dettagli concreti, la signora Gina mi raccontò alcuni episodi che certamente sorprendono e sono rifiutati dalla nostra mentalità razionale, ma fanno “intuire” realtà spirituali straordinarie, che sono forse più frequenti, soprattutto tra i bambini, di quanto si possa immaginare.
“Nella vita di mia figlia c’è sempre stato un qualche cosa di misterioso che non sono mai riuscita a capire - mi raccontò la signora Ogier -. Il primo episodio che mi sorprese, accadde nel 1961. Ma­ria Cristina aveva sei anni. Poiché era ammalata a poteva morire improvvisamente, chiesi al parroco, monsignor Giancarlo Setti, di metterla alla Comunione. Il parroco fu comprensivo e volle preparare personalmente la bambina. Maria Cristina era molto felice e una settimana prima della festa, mentre le preparavo l’abito bianco, mi disse: Il vestito bianco lo voglio: devo essere bello perché ricevo Gesù, ma non voglio regali. Di’ alle zie, agli zii e ai nonni che invece di regali mi diano dei soldi, così li posso portare ai bambini poveri. Restai male. Sapevo che i parenti adoravano la mia bambina e per quella festa volevano farle tanti regali. Cercai di farle cambiare idea. Le dissi che le avrebbero fatto dei regali e poi dato dei soldi, ma non riuscii a convincerla. Voleva solo soldi per i bambini poveri. Andai dal parroco e gli chiesi se era stato lui a dire quelle cose a Maria Cristina ma anch’egli restò meravigliato perché non aveva mai parlato di quell'argomento.
Qualche mese dopo accadde un altro episodio misterioso. Una mattina Maria Cristina mi disse: Questa notte ho sogna­to Gesù. Sono entrata in chie­sa e il grande crocifisso sull'al­tare si è svegliato. Mi ha detto: 'Maria Cristina, vuoi togliermi i chiodi e la corona di spine?'. Io ho fatto tutto quello che voleva e poi l'ho preso per mano e l'ho accompagnato a casa no­stra e l'ho messo a letto. Gli ho dato anche il pigiama perché era nudo. Lui allora mi ha detto: 'Ora vai, sei guarita’.
Anche questa volta restai perplessa. Raccontai il fatto a mio marito e mi disse di lasciar perdere. Mi confidai con il parroco e mi rispose che erano fantasie di bambini. Cercavo di dimenticare, ma la speranza di una madre si aggrappa a tutto. Quella frase ‘Ora vai, sei guarita’, mi toglieva il sonno. In quei giorni Maria Cristina era molto migliorata, sembrava guarita e io sognavo ad occhi aperti.
Qualche tempo prima eravamo andati a Stoccolma dal professor Olivecrona. Speravamo che il celebre chirurgo del cervello potesse fare un intervento, e invece ci disse che il tumore era in una posizione impossibile da raggiungere chirurgicamente. Era meglio attendere il decorso naturale della malattia. Praticò un intervento di decompressione del liquor, che avrebbe dovuto portare un miglioramento temporaneo, ma ci disse che per la nostra bambina la medicina non poteva fare nient’altro.
Dopo il racconto del sogno di Maria Cristina, io speravo che quel miglioramento fosse provocato da un miracolo, non dalla medicina. Anzi speravo che non fosse un miglio­ramento ma la guarigione completa.
A settembre portai la bambina a Lourdes e pregai molto. Passò un anno, Maria Cristina stava bene, avevamo quasi ritrovato la felicità, ma una mattina la bambina mi chiamò nella sua cameretta e mi disse: Mamma, ho sognato ancora Gesù. Mi ha chiesto di portare la croce insieme con Lui. Impaurita, le domandai piangendo: E tu che cosa hai risposto?. Con un sorriso dolcissimo la bambina disse: Gli ho detto di sì. Se avessi visto la sua faccia, gli avresti detto di sì anche tu. Pochi giorni dopo, Maria Cristina ricominciò a zoppicare e la malattia riprese il suo terribile corso. Da allora, mia figlia non si è più lamentata del male. Ha cominciato a vivere solo preoccupandosi di aiutare gli altri ed è sempre apparsa felice, contenta”.
“Che cosa faceva sua figlia per aiutare gli altri”, chiesi alla signora Ogier. “Di tutto”, mi rispose. “Viveva per gli altri. Tutti i suoi risparmi li dava ai poveri. Quando incontrava un povero per la strada, gli dava tutto quello che aveva, si fermava a chiacchierare, lo accarezzava. Io sono schizzinosa e la rimproveravo. Maria Cristina - dicevo - fa pure la carità ai poveri ma non è necessario che tu ti fermi a parlare e non devi toccarli. Sono sporchi, puoi prendere delle malattie. Lei mi rispondeva: Mamma, i poveri sono tanto soli. Non hanno bisogno soltanto di denaro, ma so­prattutto di affetto.
Quando divenne più grande, cominciò ad andare a visitare i vecchietti dei ricoveri. Li lava­va, imboccava i paralitici, com­perava indumenti, restava con loro a chiacchierare. Quando era lontana, scriveva lettere, cartoline perché non si sentissero soli.
Preoccupata per la sua salute, la portavo da un santuario all’altro pregando per ottenere un miracolo. Maria Cristina mi seguiva obbediente, ma non ha mai pregato per la sua guarigio­ne. Spesso glielo chiedevo con le lacrime agli occhi: Domanda la grazia alla Madonna, dicevo. E lei rispondeva: Mamma, ci sono tante persone che soffrono molto più di me: bisogna pregare per loro.
Ogni anno andavamo a Lourdes. Durante quei viaggi, Maria Cristina scoprì il lavoro delle crocerossine che accompagnano gli ammalati e volle diventare crocerossina. Era la crocerossina più giovane del mondo. Era felice di dedicarsi ai sofferenti. Riusciva a infondere nel loro animo tanta rassegnazione, tanta bontà. Durante i viaggi sul treno, al santuario, non si stancava mai di correre, di aiutare, di pregare, di consolare. Gli ammalati più difficili e più bisognosi erano i suoi prediletti. Non aveva ribrezzo neanche per le piaghe più orribili che facevano impressione perfino ai medici. Comperava immaginette, cartoline che scriveva alle famiglie dei suoi ammalati. Io che sapevo come faticava con la sua mano e la gamba semiparalizzate, ogni tanto le dicevo: Cristina, riposati un poco. Lei rispondeva sorridendo: Hanno bisogno di me. Mi accorgevo della fatica fatta e dei sacrifici affrontati alla sera, quando vedevo i suoi piedi gonfi, con le vesciche per il continuo camminare.
Nel 1970 venne a Firenze un cappuccino, padre Pio Conti. Era medico e prima di partire missionario per l’Amazzonia voleva specializzarsi in ginecologia e ostetricia. Studiava con mio marito e veniva spesso a casa nostra. Parlando con Padre Pio, Maria Cristina scoprì le missioni e cominciò a interessarsi anche di queste raccogliendo offerte e medicinali. Terminata la specializzazione, Padre Pio andò in Amazzonia. Dopo qualche tempo scrisse una lettera parlando del suo apostolato. Aveva una missione difficile. Il territorio era vastissimo: 500 chilometri lungo il Rio delle Amazzoni. L’unico mezzo di comunicazione era il fiume che gli Indios percorrevano con le canoe. Nella foresta c’era un piccolo ospedale ma serviva a poco. Gli ammalati gravi, i feriti potevano raggiungere l'ospedale solo attraverso il fiume, con la canoa. Il viaggio era lungo e disagiato, spesso morivano prima di arrivare dal medico. Bisognerebbe avere una imbarcazione attrezzata, concludeva Padre Pio. Era una frase buttata lì per caso, ma nella mente di Maria Cristina nacque immediatamente il desiderio di aiutare quella povera gente. Parlò con un’amica, Maria Laura Tonelli. Cominciò a interessarsi di barche, fece calcoli, pensando alla spesa necessaria. Voleva un battello attrezzato con un pronto soccorso, una specie di ospedale viaggiante. La spesa era molto grossa, ma Maria Cristina non si perse d’animo. Cominciò la sua campagna e per quasi due anni lavorò infaticabile. Raccoglieva soldi dappertutto. Scriveva lettere ad amici, a enti, ai giornali. Aveva messo delle cassettine per le offerte nello studio di suo padre, nell’ospedale, nella clinica, nei negozi. Se qualcuno le offriva un regalo, chiedeva soldi per la barca da mandare in Amazzonia. Alla sera si attaccava al telefono e non la smetteva mai. Tele­fonava anche fino alle undici di sera. Io le dicevo: Maria Cristina, devi moderarti. Diventerai la favola di tutta Firenze. Non devi importunare la gente in questo modo. Come sempre, lei rispondeva con un gran sorriso e continuava il suo lavoro. Il suo entusiasmo contaminava tutti. La gente, invece di scocciarsi, restava affascinata da quello che sapeva dire quella ragazzina. Ogni giorno partivano decine di lettere. Per raccogliere offerte furono organizzati concerti. Nelle fabbriche e nei forni i ceramisti si tassavano. Qualche commerciante chiedeva offerte ai suoi clienti. Finalmente la somma fu raggiunta. Bisognava fare l’acquisto. A questo punto Maria Cristina trovò l’appoggio di un altro amico: Bruno Lorenzini, un portuale di Livorno: un gigante dal cuore tanto buono. Lorenzini fu con­quistato dall’entusiasmo di Ma­ria Cristina e si schierò con lei. Andarono a Fiumicino a com­perare la barca. Ne comperarono una lunga dieci metri, dotata di motore diesel. Fu attrezzata con ambulatorio-pronto soccorso, posti letto per trasporto di ammalati. Lorenzini riuscì ad avere l'aiuto degli altri portuali e la barca fu trasportata gratui­tamente da Fiumicino al porto di Livorno. Ottenne l'esenzione dalla dogana; dall'armatore Costa riuscì ad avere il massimo di riduzione per il trasporto in Amazzonia. Il 21 febbraio 1972 la barca partì. Quel giorno, al porto di Livorno Maria Cristina era felicissima. Forse quello fu uno dei giorni più belli della sua vita. Il battello, che porta il nome di Maria Cristina, iniziò il suo lavoro sul Rio delle Amazzoni e sul Rio Solimoas a servizio degli indigeni ammalati, diventando utilissimo e Maria Cristina continuò a interessarsene per rifornirlo di medicinali, di viveri dietetici, di attrezzature sanitarie tra le più moderne.
C’era un’altra opera che voleva realizzare. Diceva spesso: Ai bambini ci pensano tutti, ma i vecchi sono i più dimenticati. Soffriva quando andava nei ricoveri. Pensava di formare piccole case che fossero come famiglie per i vecchi soli e abbandonati. Aveva già un progetto. Voleva cominciare con una casa-famiglia a Firenze, ma parlava con i suoi amici per estendere l’iniziativa in altre città.
La casa di riposo era il suo sogno. Non ha potuto realizzarlo ma il suo desiderio non an­drà perduto. Ora tocca a me. Io non sono Maria Cristina, non ho la sua fede e la sua forza, ma sento che devo continuare la sua opera. Mio marito ha detto: La nostra vita ora ha un solo scopo: realizzare il sogno di Maria Cristina per i suoi ammalati. Metteremo tutte le nostre sostanze in quell’opera”.
Come sono trascorsi gli ultimi giorni di Maria Cristina? “A ottobre cominciò a star molto male. Decidemmo di tornare a Stoccolma per un altro tentativo, ma fu un viaggio inu­tile. In novembre iniziammo una cura a Roma. Trascorrevo gran parte della settimana a Roma, in casa di parenti. Maria Cristina non riusciva più a stare in piedi da sola. Si trascinava per qualche metro appoggiata a me e soffriva, ma non si lamentava.
L’otto gennaio era stato un giorno normale. Avevo accompagnato Maria Cristina da parenti. Alle 6.30 di sera eravamo andati a messa e avevamo fatto la Comunione, come sempre. Poi eravamo rientrati. Maria Cristina si è seduta a tavola. Si è girata verso di me, mi ha guardato un attimo, smarrita, mi ha gettato le braccia al collo ed è rimasta fulminata da una paralisi bulbare.
La mattina seguente la portinaia mi ha portato quattro ricevute di vaglia che aveva eseguito per conto di mia figlia. Poche ore prima di morire, Maria Cristina aveva fatto le sue ultime offerte: 100 mila lire alla Missione in Amazzonia per le medicine e la benzina del battello; 10 mila lire a un Istituto di ragazzi spastici; 2000 lire alla città dei ragazzi vicino a Roma; 1000 lire al Santuario della Madonna di Fatima di un paese toscano”.
Questi sono solo alcuni dei ricordi di Maria Cristina che sua madre mi ha raccontato un mese dopo che sua figlia era morta. Chi non ha fede, di fronte alla morte di persone così giovani, si indigna. Pensa a un destino crudele, a una ingiustizia spietata. Ma la fede apre orizzonti stupefacenti, realtà sublimi di cui avremo conoscenza piena nell’altra vita. Maria Cristina è stata un seme meraviglioso. Quella sua idea, suggerita al padre un anno prima di morire, ha dato origine ai Centri di aiuto per la vita, che, come è stato evidenziato al Convegno di Firenze, sono oggi una realtà straordinaria. Ma a Firenze, e in altre città d’Italia e del mondo ci sono altre ammirevoli realtà che Maria Cristina sognava e che, dopo la sua morte, i suoi genitori, con i parenti, gli amici, i conoscenti, gli ammiratori hanno realizzato in suo ricordo. Case-famiglia per anziani, una scuola in Brasile per bambini poveri, una scuola in Bolivia, un centro accoglienza per orfani in Bielorussia. Esiste un Istituto e una Associazione Onlus che portano il nome di Maria Cristina. Ma esistono soprattutto centinaia, migliaia di persone, soprattutto giovani, sparse per il mondo che hanno accolto nel loro cuore l’esempio di questa ragazza. Pensando a lei, trovano ogni giorno entusiasmo e coraggio per essere testimoni di amore tra i poveri e i sofferenti, contribuendo a dare, a questo nostro mondo, spesso troppo cinico e crudele, un volto umano.


Autore:
Renzo Allegri


Fonte:
ZENIT


Note:
Per approfondire: www.mariacristinaogier.it

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Aggiunto/modificato il 2023-07-02

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