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San Paolo Apostolo

29 giugno

Paolo, cooptato nel collegio apostolico dal Cristo stesso sulla via di Damasco, strumento eletto per portare il suo nome davanti ai popoli, è il più grande missionario di tutti tempi, l'avvocato dei pagani, l'apostolo delle genti, colui che insieme a Pietro far risuonare il messaggio evangelico nel mondo mediterraneo. Gli apostoli Pietro e Paolo sigillarono con il martirio a Roma, verso l'anno 67, la loro testimonianza al Maestro. (Mess. Rom.)

Patronato: Vescovi, Missionari, Rover e Scolte

Etimologia: Paolo = piccolo di statura, dal latino

Emblema: Spada

Martirologio Romano: Solennità dei santi Pietro e Paolo Apostoli. Simone, figlio di Giona e fratello di Andrea, primo tra i discepoli professò che Gesù era il Cristo, Figlio del Dio vivente, dal quale fu chiamato Pietro. Paolo, Apostolo delle genti, predicò ai Giudei e ai Greci Cristo crocifisso. Entrambi nella fede e nell’amore di Gesù Cristo annunciarono il Vangelo nella città di Roma e morirono martiri sotto l’imperatore Nerone: il primo, come dice la tradizione, crocifisso a testa in giù e sepolto in Vaticano presso la via Trionfale, il secondo trafitto con la spada e sepolto sulla via Ostiense. In questo giorno tutto il mondo con uguale onore e venerazione celebra il loro trionfo.


SOMMARIO:
I. CHI E' PAOLO ?    II. CONVERSIONE E MISSIONE    III. LA MISSIONE DI PAOLO    IV. CONCLUSIONE    

I. CHI E' PAOLO ?

La sua origine. Geografia e cronologia

San Luca segnala che Paolo sarebbe nato a Tarso (At 22,3). I suoi genitori emigrarono in questa città, probabilmente deportati dai romani. Una volta affrancati, ricevettero in quel momento la cittadinanza romana che trasmisero a Paolo (At 25,11-12). Sappiamo anche che aveva una sorella e un nipote (At 23,16). Paolo cresce nella città di Tarso (At 9,11,30; 11,25; 21,39; 22,3), capitale della Cilicia, attualmente in Turchia.

Questa città era grande e ricca. Ubicata su una delle strade più frequentate del mondo antico, la porta verso est dell'Asia minore, era molto rinomata per la qualità dei suoi lini. Potrebbe essere questa una delle ragioni per cui Paolo apprese il mestiere di fabbricante di tende. Tarso aveva un'amministrazione propria, con i suoi magistrati eletti e la sua moneta. La presenza ebraica nel corso di tutto il primo secolo d.C. è ben attestata. La città si oppose a Cassio, omicida di Giulio Cesare, nel 66 a.C. Marcantonio la ricompenserà facendo di Tarso una città libera e non sottomessa alle imposte.

Questa città è anche molto conosciuta come un centro di eccellenza per l'educazione e la filosofia. Strabone, nella sua Geografia (14.5.14), sottolinea che, per l'educazione, Tarso supera Atene, Alessandria e ogni altro luogo. Sottolinea l'eccellenza delle sue scuole di retorica. I filosofi stoici ne avevano fatto la loro dimora di predilezione, e non era raro incrociare uno di loro che esponeva per strada la sua dottrina. San Paolo ricevette questa cultura nella sua educazione. Le sue lettere sono costruite spesso con l'aiuto di luoghi comuni, di argomenti tratti dalla cultura filosofica e drammatica del suo tempo.

Gli elementi più sicuri della biografia di Paolo sono il suo incontro con Cristo intorno all'anno 32 e la prigionia a Roma nel 60-62. Sarebbe stato martirizzato a Roma tra il 63 e il 67. Certi punti restano impossibili da determinare con precisione, per esempio il numero dei viaggi effettuati. Le ipotesi variano tra 2 e 4, ma 3 sembra l’ipotesi più verosimile. Le grandi tappe della sua vita sono la sua formazione a Gerusalemme presso Gamaliele (At 22,3), la persecuzione dei cristiani negli anni che seguirono, il suo incontro con Cristo sulla strada di Damasco all'inizio degli anni 30, l'incontro con gli apostoli a Gerusalemme e la missione verso i pagani, la sua morte a Roma.

L’ebreo Paolo

Paolo parla di sé in varie occasioni, permettendoci così di comprendere chi fosse. Ci fornisce notizie importanti in Fil 3,5-6: “circonciso l'ottavo giorno, della stirpe di Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da ebrei, fariseo quanto alla Legge”. È stato circonciso l'ottavo giorno. Questo attesta l'eccellenza della sua origine: Paolo è stato circonciso entro i limiti fissati dalla legge di Mosé in Lv 12,3. "Israelita" è un'espressione tecnica che sottolinea l'appartenenza religiosa. "Della tribù di Beniamino". Questa appartenenza è fonte di onore nel giudaismo per differenti ragioni. Beniamino è il figlio di Rachele, la moglie preferita di Giacobbe, l’unico nato nella Terra Promessa (Gen 35,16-18). Questa tribù ha dato il primo re a Israele (1 Sam 9,1-2) ed è restata fedele alla dinastia di Davide (1 Re 12,21). Insieme alla tribù di Giuda, è il primo gruppo a ricostruire il tempio dopo l'esilio (Esd 4,1). Era dunque un onore appartenere a questa tribù. “Ebreo da ebrei", vale a dire di una famiglia che oggi chiameremmo "praticante", che osserva la legge di Mosé e parla aramaico. Questi versetti ci presentano dunque un ebreo perfetto.

Paolo si presenta anche come fariseo. Questi erano conosciuti per il loro attaccamento alla legge di Mosé, ma anche alla legge orale. Questa legge orale sarà messa per iscritto a partire dal secondo secolo e sarà conosciuta come Talmud. Flavio Giuseppe, uno storico ebreo al servizio dei Romani, scrisse: “I farisei hanno imposto al popolo molte leggi della tradizione dei padri che non sono scritti nella legge di Mosé” (Antiquités Juives, 13.297). Ritroviamo quest’idea nelle epistole dell’Apostolo quando afferma di essere fanatico “nel difendere le tradizioni dei padri” (Gal 1,14). Le leggi concernenti l'alimentazione, la cashroute, avevano per loro un senso importante. Definiscono simbolicamente il popolo eletto come separato dal resto dell'umanità. La nuova fede, all’interno stesso del giudaismo, rimetteva completamente in causa questa distinzione. Ciò era inammissibile per un fariseo convinto come Paolo. Negare questa legge e affermare che la salvezza era aperta a tutti voleva dire mettere Israele in pericolo di morte.

Tuttavia, questa descrizione non deve farci immaginare un uomo chiuso nella sua cultura religiosa. Abbiamo visto in che contesto Paolo sia cresciuto a Tarso. La lettura delle epistole di Paolo ci conferma che egli si è formato non solo nella sinagoga, ma anche in un ambiente greco. La sua conoscenza della retorica greca e le citazioni o i riferimenti agli autori classici mostrano che ha studiato questi argomenti almeno fino all'età di 14-15 anni. È andato poi a Gerusalemme a studiare la tradizione dei suoi padri presso Gamaliele. Gli stessi rabbini, in quell’epoca, non esitavano a far leggere ai loro studenti gli autori greci. L'universo culturale e intellettuale di Paolo è dunque molto ampio.


II. CONVERSIONE E MISSIONE

Una conversione?

Vocazione missionaria e “conversione” sono strettamente collegate in San Paolo. Per questa ragione, è interessante studiare la natura di questa trasformazione spirituale per comprendere meglio la sua vocazione missionaria.

Paolo parla poco di questo avvenimento nelle sue epistole. I principali testi sono 1 Cor 15,1-11, Gal 1,13-17 e Fil 3,2-14, ma sono avari di dettagli storici. L'Apostolo ne sviluppa soprattutto il senso profondo. Parla di un'esperienza che ha trasformato completamente la sua esistenza, ma non la concepisce come un evento isolato, al contrario, è stato chiamato a questo sin dal seno materno (Gal 1,15). Dunque non si può leggere quell’incontro con Cristo senza prendere in considerazione l'insieme della sua esistenza.

Qual è allora il senso di quell’avvenimento? Quando si parla di conversione, sarebbe inesatto interpretare questo termine come il passaggio da una religione a un’altra. Di fatto, Paolo non ritiene di essere mai passato da una religione a un'altra. Occorre notare anche che la rottura tra giudaismo e cristianesimo non era ancora effettiva in quell’epoca. Si tratta di una conversione nel senso profondo del termine, un'apertura del cuore a Dio, l'irruzione della grazia e la trasformazione della persona.

Paolo commenta così il suo incontro con Cristo: “Colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani” (Gal 1,15-16). L'Apostolo percepisce questo sconvolgimento interiore come il frutto di una lunga maturazione cominciata fin dall'inizio della sua esistenza: dalla sua nascita è stato condotto da Dio, lentamente e con pazienza, fino a quel momento decisivo in cui Cristo l'ha preso e l'ha fatto suo per sempre (Fil 3,12). Paolo insiste, nelle sue epistole, sull'iniziativa divina. Tutto cambia in quel momento.

Quella conversione equivale a una nuova nascita. Quell’avvenimento è portatore di una novità radicale. Paolo è accecato dalla rivelazione di Cristo. Il battesimo gli restituisce la vista (At 9,18), un simbolo molto forte. L’uomo vecchio non può vedere molto quando non è nato alla nuova vita. È un mondo nuovo che si rivela all'Apostolo. Tutto il pensiero di Paolo si basa su questa esperienza. Non è una semplice visione di Cristo. È la rivelazione della trasformazione profonda del mondo operato dal Cristo risorto. Paolo insiste nei suoi scritti sulla distinzione tra il vecchio mondo e il mondo nuovo. Ha vissuto questa distinzione nella sua carne.

Egli utilizza due espressioni per descrivere ciò che è accaduto: l'Apostolo “ha veduto” Cristo (1 Cor 9,1; 15,8) e ha conosciuto una “rivelazione” (Gal 1,16; 2,2; Ef 3,3), un termine che utilizza a più riprese (Rm 16,25; 1 Cor 1,7; 2 Cor 12,1,7, benché questo elenco non sia esauriente). Ciascuno di questi due termini descrive un'azione divina. Cristo si fa vedere più di quanto sia visto. I verbi impiegati quando Paolo parla di questa visione sono nella forma passiva. Dio si rivela all'uomo; è una comunicazione del mistero divino. Non è senza ragione che in Ef 1,17 Paolo parla dello “spirito di sapienza e di rivelazione”, fonte della conoscenza del mistero di Dio per i cristiani.

Il missionario

Questa rivelazione non trova la sua ragion d’essere in se stessa. Paolo commenta che tale rivelazione gli è stata donata “perché lo annunziassi (il mistero di Cristo) in mezzo ai pagani”. La rivelazione lo destina ad essere missionario, ma questa missione è interpretata sul modello della vocazione del profeta. Gal 1,15-16 è costruito con due riferimenti alle vocazioni dei profeti Isaia (Is 49,1) e Geremia (Ger 1,5). Paolo comprende la sua vocazione missionaria per le nazioni come una continuazione della missione dei profeti e, più specificamente, del servo del Signore come viene descritto in Isaia. Il missionario è il messaggero che compie la missione del servo del Signore espressa in Is 40-55. Allo stesso modo, a Corinto Paolo ha una visione in cui gli viene detto: “Non aver paura, ma continua a parlare e non tacere, perché io sono con te e nessuno cercherà di farti del male, perché io ho un popolo numeroso in questa città”. (At 18,9-10). Leggiamo in Is 41,10: “Non temere, perché io sono con te; non smarrirti, perché io sono il tuo Dio. Ti rendo forte e anche ti vengo in aiuto e ti sostengo con la destra vittoriosa”. Paolo deve compiere a Corinto l'opera del servo di Dio.

La maggior parte di questi testi riguardano Isaia, e più particolarmente la figura del servo di Yahvé. La prima catechesi cristiana ha riconosciuto in questo personaggio misterioso una profezia di Cristo. Basterà ricordare il dialogo tra l'eunuco etiope e Filippo sulla strada di Gaza (At 8,30-35). Di conseguenza Paolo, applicando a sé le profezie del servo, concepisce la sua missione come un prolungamento della missione di Cristo. Questa identificazione del predicatore col suo Signore deve essere compresa in un senso dinamico e non statico. Incontriamo qui un punto fondamentale della teologia di Paolo: l'identificazione con Cristo comincia nel battesimo e si realizza nel corso di tutta l'esistenza cristiana. Essere “conquistato” da Cristo (Fil 3,12), condotto a questa trasformazione intima della persona. Ciò si verifica in un modo particolare nel caso dell'Apostolo.

L'autogiustificazione di Paolo di fronte alle critiche è molto ricca di insegnamenti (2 Cor 4,7-15). Paolo si vede costretto a giustificare la sua qualità di Apostolo di fronte ai missionari giudeo-cristiani, poco preoccupati di rispettarla: “ Noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi ”. Questo versetto enuncia la tesi che poi dimostra nei versetti seguenti: la fragilità dell’Apostolo nel suo apostolato, vissuto nelle persecuzioni, non è un segno di debolezza, ma la condizione necessaria affinché il tesoro che porta, la conoscenza di Cristo, possa essere manifestato e la comunità cristiana possa ricevere la vita del Risorto. I versetti 10 e 11 illustrano l'identificazione delle sue sofferenze con quelle di Cristo. Paolo afferma: siamo “ esposti alla morte ”. Ora, l'espressione “essere esposti” è utilizzata abitualmente tanto da Paolo che dagli evangelisti per designare la Passione di Cristo. Egli prosegue in questa identificazione al versetto 14, quando afferma che risusciterà con Gesù. La sua missione consiste dunque nel dare la sua vita come Cristo. “ Portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo ” (2 Cor 4,10). Questo versetto suggerisce che la morte che opera nel predicatore è fonte di vita per la comunità, proprio come la morte di Cristo è la sorgente della nostra vita. Per il suo ministero di Apostolo, egli rende presente il sacrificio redentore di Cristo. “ Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo ” (Col 1,24). Ecco l’essenza eucaristica di ogni vita missionaria.

Per le nazioni


L'universalità è una delle caratteristiche essenziali della missione di Paolo. È la conseguenza diretta della natura della nuova fede. Egli deve annunciare il Vangelo ai pagani. Questa affermazione di Gal 1,16 è confermata ampiamente dalla promessa di assistenza che troviamo in At 26,17: « Per questo ti libererò dal popolo e dai pagani, ai quali ti mando ». Paolo sarà davanti agli ebrei e ai pagani un testimone del Risorto, inviato dal Signore dell’Esaltazione, che, al pari dei dodici, ha visto personalmente. Un altro racconto della visione costituisce il fondamento di questa missione presso i pagani. At 22,17-21 riferisce di una visione ambientata nel tempio. Paolo deve andare incontro alle «nazioni». Ciò può riferirsi tanto ai non ebrei quanto ai popoli che risiedono fuori da Gerusalemme. Abbiamo qui uno dei punti centrali della novità della fede cristiana e della teologia di Paolo: l'universalità della Salvezza. Cristo ha dato la sua vita per molti e vuole che ogni uomo sia salvato. La sua carità, che arde in un cuore di Apostolo, lo condurrà fino in Spagna (Rm 15,24), l’estremità conosciuta del mondo di quel tempo.

Missione e Chiesa

Paolo si dice «Apostolo», anche se non fa parte dei dodici. Questo sostantivo viene da un verbo greco che significa «inviare lontano o fuori». Il diritto di Paolo a portare questo titolo, che rivendica frequentemente, riposa sul fatto che è stato mandato dal Cristo risorto per predicare (1 Cor 1,17), per rivelare ai Gentili il mistero di Cristo (Gal 1,16, Ef 3,8), ed è molto cosciente dell'onore che gli viene fatto: «Io infatti sono l’infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio » (1 Cor 15,9). Per essere Apostolo, bisognava assolutamente essere inviati; il solo fatto di aver visto il Cristo risorto non bastava. In 1 Cor 15,5-7, Paolo oppone i «cinquecento fratelli» a «tutti gli apostoli» (questi ultimi, a loro volta, distinti dai dodici). La differenza tra questi due gruppi risiede nel fatto che i primi non sono stati incaricati di una missione.

Questa precisione semantica introduce la questione della Chiesa. Essendo Paolo stato mandato direttamente da Cristo, secondo la sua affermazione, può esistere una missione all'infuori della Chiesa? Notiamo nei differenti racconti della sua vocazione, tanto nelle epistole che negli Atti, che la Chiesa non è mai assente. Così Paolo ripete spesso che la sua missione non è un incarico ecclesiastico, ma un vero carisma divino. Constatiamo anche che è la mediazione della Chiesa che certifica l’autenticità della sua vocazione. Paolo va ad incontrare Pietro per non cadere nell'illusione di aver corso invano (Gal 2,2). In At 9,10-18, vediamo che l'invio in missione gli è manifestato da Anania e non direttamente da Cristo. La mediazione di Anania non aveva per scopo di presentargli una dottrina nuova, ma di aiutare Paolo a comprendere la sua investitura apostolica alla luce della tradizione ecclesiale. Ciò è confermato dai differenti rinvii alla tradizione ecclesiale nelle epistole di Paolo (1 Cor 11,2; 11,23; 15,1). Peraltro, Paolo avrà la costante preoccupazione di essere inviato da una comunità. Ciò si verifica all'inizio della sua opera missionaria, alla partenza da Antiochia (At 13,1-3), ma anche fino alla fine della sua vita. Paolo scriverà alla comunità di Roma, fra l’altro per chiedere il sostegno e il riconoscimento della sua missione (Rm 15,24). Non c'è nessuna contraddizione tra la sua missione e la tradizione ecclesiale.


III. LA MISSIONE DI PAOLO

Abbiamo visto l'origine della missione e il suo senso per Paolo. Sviluppiamo adesso gli aspetti concreti di questa missione. Aveva una strategia? Come si muoveva? Come comunicava? Si tratta di domande che interessano direttamente ogni persona impegnata nell'annuncio del Vangelo.

Guidato dallo Spirito

Paolo si rivolge in prima istanza agli ebrei e poi ai pagani, ma sa che deve rivolgersi anche ai non ebrei. Paolo era missionario per entrambi i popoli (Rm 1,16). Il piano strategico di Paolo era semplice: voleva, in vista del compimento del suo incarico, annunciare ai pagani il Vangelo, particolarmente nei luoghi dove non era mai stato annunciato (Gal 2,7; Rm 15,14-21). Paolo andava di città in città passando per le principali strade romane, in Arabia, in Siria e Cilicia, a Cipro, in Asia Minore, in Macedonia e in Acaia e, come aveva previsto lui stesso, in Spagna. Paolo si rimette alla volontà di Dio per il suo percorso missionario. Anche se stabilisce dei progetti per i suoi viaggi, resta sensibile all'azione dello Spirito Santo e si lascia condurre da Lui (At 16,9), che spesso lo guida attraverso le persecuzioni. Queste sono la causa di numerosi spostamenti di Paolo, dal momento che lo spingono a fuggire: Antiochia (At 13,50-51); Iconio (14,5-6); Listra (14,19-20); Filippi (16,19-40); Tessalonica (17,5-9), Berea (17,13-14) ed Efeso (20,1).

La sinagoga, la piazza pubblica

La strategia di Paolo si è concentrata sui centri urbani, sui centri dell’amministrazione romana, di cultura greca e di presenza ebraica, affinché il Vangelo si diffondesse, partendo dalle comunità fondate in quei luoghi, nel resto del paese.

Quando l'Apostolo arriva in una città, il primo luogo dove si reca è la sinagoga, nel giorno dello shabbat, per partecipare al culto. Straniero, è invitato dalle autorità religiose a dare la sua interpretazione della Torah. È l'opportunità per lui di prendere la parola e annunciare Cristo risorto. Da un punto di vista strategico, i pagani che aderivano al Dio d'Israele, i «timorati di Dio», erano i migliori bersagli per un annuncio ai pagani. Annunciando il Vangelo nelle sinagoghe, queste persone rimanevano colpite da Paolo. Il riferimento alla sinagoga resta una costante nella vita di Paolo. Anche alla fine della sua vita, arrivando a Roma, invita gli ebrei a venire ad ascoltarlo (At 28).

Per quanto riguarda l’ambiente pagano, il racconto della predicazione sull'Agora di Atene (At 17,16-34) ci permette di ipotizzare che Paolo andasse abitualmente in quei luoghi della vita pubblica per predicare. Non esitava ad approfittare di tutte le opportunità possibili per annunciare il Vangelo di Cristo, persino in prigione (At 16,25-34), ciò che ci varrà un bellissimo racconto della conversione di un’intera famiglia.

Le case private

Un altro luogo essenziale per la missione è rappresentato dalle case private. La vita delle prime comunità cristiane è strettamente legata alla casa. Questa comprende al tempo stesso la famiglia e i suoi intimi (servitori, schiavi). Questo luogo è contemporaneamente il punto di riferimento, il luogo in cui la comunità si riunisce per l'assemblea domenicale, ma anche la base d’appoggio del missionario. Niente di nuovo per i credenti cresciuti nel giudaismo, dal momento che costoro hanno da sempre l'abitudine di riunirsi nei luoghi privati. La casa privata ha anche altri vantaggi. La celebrazione dell'Eucarestia era seguita o preceduta da un pasto comune. Questo luogo assicurava anche una certa discrezione, che sarebbe diventata presto necessaria per sfuggire alla persecuzione romana o all'odio della sinagoga.

È interessante notare che Paolo invita la sposa di un pagano a non lasciare il marito (1 Cor 7,13-14). Questo è tanto più interessante in quanto è noto che la casa era il luogo del culto familiare. Gli dei pagani avevano il loro altare. Il pater familias era assolutamente libero di recarsi nei templi pagani per pregare o esercitare una funzione sacerdotale. Era anche libero di frequentare regolarmente le case di prostituzione, un comportamento molto frequente allora. In numerose occasioni si assiste alla conversione di un’intera famiglia: le famiglie di Lidia e della guardia carceraria a Filippi (At 16,14-15.32-34), le famiglie di Crispo e di Stefana a Corinto (At 18,8; 1 Cor 1,16; 16,15). Gli studi architettonici mostrano che si poteva, secondo le dimensioni della casa, accogliere tra 20 e 100 persone.

Gli ascoltatori di Paolo

Paolo si rivolgeva a tutti gli strati della società. Se i corinzi erano persone di condizione sociale molto bassa, e se i nomi indicati in Rm 16 rinviano anch’essi a una condizione sociale semplice, Luca riporta a più riprese che Paolo è stato in contatto con persone che appartengono agli strati superiori della società: Lidia, la commerciante di porpora, ma anche alcune donne della buona società a Tessalonica e in Berea (At 17,4.12), così come molti asiarchi (At 19,31). Questi ultimi sono descritti come amici di Paolo. È probabile dunque che siano il frutto della sua predicazione. At 13,7 ci riporta l'esempio di Sergio Paolo, proconsole a Pafo.

L'incontro con il proconsole Festo e con il re Agrippa è interessante, perché ci mostra Paolo che si rivolge a dei personaggi in cima alla scala sociale. Di fronte a Festo che lo accusa di essere pazzo, Paolo risponde facendo appello al re Agrippa che crede ai profeti (At 26,27), e conclude esprimendo il desiderio che, presto o tardi, tutti gli ascoltatori diventino simili a lui, ovvero credenti (At 26,29). Questo passaggio da un'arringa a un discorso missionario mostra non solo il coraggio di Paolo, ma anche che la missione è sempre possibile tra gli ebrei.

Secondo 2 Tm 4,16-17, Paolo ha proclamato il Vangelo anche durante il suo processo romano: «Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Non se ne tenga conto contro di loro. Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché per mio mezzo si compisse la proclamazione del messaggio e potessero sentirlo tutti i Gentili: e così fui liberato dalla bocca del leone».

Questi contatti e le conversioni in questi ambienti permettono di ottenere appoggi politici, ma anche di avere accesso a luoghi sufficientemente vasti dove ritrovarsi, e costituisce una prova del fatto che il Vangelo tocca tutti gli strati della società. Tuttavia, in questi testi niente indica che Paolo avesse una strategia specifica per questi ambienti.

Durata delle missioni cittadine

Una lettura un po’ rapida degli Atti degli Apostoli o delle lettere paoline potrebbe dare l'impressione che Paolo passasse di città in città senza attardarsi molto. Al contrario. Le sue missioni si prolungavano per parecchi mesi o parecchi anni. Per la missione in Siria (Antiochia) At 11,26 parla di un anno. La missione in Macedonia e Acaia dura tre anni, dal 49 al 51. Paolo fonda allora almeno quattro comunità: Filippi, Tessalonica, Berea e Corinto. Paolo passa un anno e mezzo (At 18,11) a Corinto (da febbraio-marzo 50 al settembre 52). La missione dell'Asia, tra il 52 e il 55, si concentra ad Efeso, dove Paolo lavora per tre anni (At 20,31): insegna tre mesi nella sinagoga (At 19,8), due anni nella scuola di Tiranno, e ancora un tempo supplementare non precisato (At 19,22). Il missionario sa di dover passare del tempo con le persone per trasmettere loro la fede.

Come comunica Paolo?

La fecondità dell’Apostolo potrebbe renderci invidiosi! Una lettura approfondita delle sue epistole e degli Atti degli Apostoli ci rivela la ragione di questo straordinario destino. L'Apostolo, l'abbiamo visto, è un vaso di argilla, fragile e debole. Ma è abitato dalla potenza di Dio, dallo Spirito Santo. Questa azione dello Spirito, Paolo cerca con tutti i mezzi di facilitarla. Sarà il primo punto che presenteremo. Paolo fa tutto per il Vangelo e per mezzo del Vangelo. Questo annuncio del Vangelo viene fatto essenzialmente attraverso due mezzi: la predicazione e l'esercizio dei carismi.

Tutto per il Vangelo e tramite il Vangelo


La condizione primaria per l'esercizio della missione, secondo l'Apostolo, è la coerenza di vita. La sua stessa vita deve essere una proclamazione del Vangelo. Egli non deve in nessun modo costituire un ostacolo a questa proclamazione. Paolo esprime questo concetto attraverso un aspetto particolare. Non vuole essere a carico delle comunità che visita e alle quali annuncia il Vangelo, ma allo stesso tempo riconosce al predicatore il diritto di vivere della sua predicazione. 1 Cor 9 ci presenta una riflessione molto bella dell’Apostolo su questo punto. Questi infatti rifiuta, pur avendo diritto a godere del frutto del suo lavoro, di approfittare della sua responsabilità. La ragione fondamentale è questa: «tutto sopportiamo per non recare intralcio al vangelo di Cristo» (1 Cor 9,12). Questa scelta di Paolo è presentata in effetti come una necessità. Egli è consapevole che annunciare il Vangelo è un incarico che gli è stato affidato: «Guai a me se non predicassi il vangelo! » (1 Cor 9,16). L'iniziativa non spetta a lui. La sua ricompensa risiede nel fatto stesso di annunciare gratuitamente il Vangelo. Per questo si fa tutto a tutti!

La sola comunità da cui accetterà un sostegno finanziario diretto è quella di Filippi. Mentre Paolo era in prigione, questa comunità gli fa avere un dono molto necessario in quel periodo di sconforto in cui il lavoro gli era impossibile. I prigionieri spesso non mangiavano che quello che le loro famiglie e gli amici portavano loro! Incarcerato, Paolo non poteva continuare a fabbricare tende.

La predicazione

Paolo è un maestro di predicazione. Una lettura veloce delle sue lettere potrebbe farci pensare che parlasse direttamente, senza una preparazione particolare, «ispirato» dallo Spirito, dunque in contrasto con i retori sofisti dell'epoca, dai discorsi ampollosi e spesso molto vuoti. Proprio al contrario. 1 Cor 2,1-5 ci rivela i meccanismi fondamentali della sua predicazione. Certo, Paolo si oppone a questa retorica vuota, in cerca di una brillante visibilità, molto in voga in quell’epoca, ma viene da una buona scuola e sa bene quale efficacia dà a un discorso una buona applicazione delle regole fondamentali della retorica greca. Egli colloca queste conoscenze al servizio del Vangelo. Questo passaggio di 1 Cor 2 ci dà un insegnamento prezioso che conviene esaminare con attenzione.

Sotto una critica apparente dell'arte del discorso, Paolo sviluppa una teologia della predicazione. L'Apostolo ricorda innanzitutto che la sua missione è la proclamazione di Gesù come messia, ma un messia crocifisso. Questa proclamazione della morte del Signore è centrale. Coloro che partecipano alla mensa del Signore proclamano la sua morte (1 Cor 11,26), la parola di Dio è proclamata nelle sinagoghe (At 13,5). Egli dice alla Chiesa di Roma che la fama della loro fede si espande in tutto il mondo (Rm 1,8). L’aspetto che viene sottolineato è la presentazione nel campo pubblico. Non la si deve comprendere necessariamente come una proclamazione in pubblico, in ambienti o in edifici pubblici. Questo avrebbe costretto Paolo ad assumere lo statuto di oratore pubblico, il che avrebbe danneggiato la sua posizione a Corinto. Ma la proclamazione resta pubblica, vale a dire che non comunica un insegnamento esoterico ad un gruppo di iniziati, bensì racconta avvenimenti a tutti quelli che lo vogliono ascoltare.

Paolo rifiuta di adoperare, come fanno i retori dell'epoca, ciò che piace all'uditorio ma che impedirebbe loro di comprendere il Vangelo. Rinuncia a predicare al fine di ottenere un effetto, nel senso di fare una sorta di sfilata davanti a un uditorio che è stato sedotto. Questa proclamazione è l'annuncio del mistero della Croce. Non vuole conoscere altro che il Cristo crocifisso. È qui tutto il contenuto del suo messaggio, il resto è solamente commento. Egli stesso incarna questa realtà. Il Cristo crocifisso vive in lui (Gal 2,20).

Afferma di aver predicato tutto timoroso e tremante, la qual cosa non manca di sorprenderci, tanto la sua forza di carattere traspare nelle sue lettere. In effetti, questi due termini formano un'espressione particolare che viene dall’Antico Testamento. È adoperata abitualmente per designare l'atteggiamento di colui che si trova ad affrontare un nemico ostile o un assalto mortale (Es 15,16; Dt 2,25; Gdt 2,28; Sal 54,6; Is 19,16). La predicazione è un combattimento. Questa debolezza in mezzo ai corinzi non era dunque una malattia qualsiasi. È il contesto in cui si rivela la potenza di Dio. Questo si verifica in 1 Cor 1,27-29 e in 2 Cor 12,9 (« ti basta la mia grazia»). Questo atteggiamento contrasta totalmente con l'atteggiamento molto fiducioso dei sofisti. Paolo non è precisamente un oratore che viene a divertire le folle.

Questa coscienza del carattere particolare della predicazione viene esplicitata nei versetti 4 e 5 attraverso un insieme di giochi di parole molto fini. Molti dei termini adoperati da Paolo hanno un doppio senso che le nostre traduzioni sono incapaci di rendere. Utilizza parole che hanno un senso nel vocabolario religioso, ma anche un senso tecnico nella retorica. Lo Spirito Santo è presentato come colui che persuade i cuori. Questa frase attribuisce allo Spirito Santo il potere di persuasione. È Lui il retore! Il risultato di questa "dimostrazione" (termine tecnico della retorica) non è una semplice prova, una convinzione, bensì la fede, e tutti questi concetti vengono espressi attraverso la stessa parola greca che viene tradotta con "fede" nelle nostre bibbie! L'ironia è grande. La potenza dello Spirito contrasta con la debolezza di Paolo e il potere dimostrativo dello Spirito contrasta con il potere persuasivo di parole che appartengono alla saggezza umana.

Al di là del contesto storico che determina in parte il discorso dell’Apostolo, possiamo mettere in rilievo alcuni elementi importanti per l'annuncio del Vangelo. Il messaggio è centrato sul mistero della Croce, vale a dire sulla salvezza. Il mezzo deve essere subordinato al suo contenuto, o meglio, deve favorirne la visibilità. Il frutto dell'annuncio è la fede, non una forma di persuasione. La fede in Paolo è caratterizzata dall'ubbidienza (cf. Rm 1,18). È adesione alla persona e alla parola di Cristo. Questa è il frutto dell'azione dello Spirito Santo che si rivela come il vero locutore, al di là della persona del missionario. Questi ha il dovere di agire con “timore e tremore”. Questo significa, al tempo stesso, che si tratta di una situazione precaria, di un combattimento, ma anche che deve essere cosciente che si tratta di un'azione divina. Si tiene in presenza di Dio. L’opera missionaria, dunque, è un’opera eminentemente teologale. La finezza della composizione del passaggio che sa utilizzare tutti gli artifici della retorica mostra che ciò non vuol dire povertà di linguaggio o ingenuità, bensì il contrario. Tutti i mezzi offerti dal linguaggio per trasmettere questo messaggio vengono utilizzati.

I carismi e i miracoli

La questione dei carismi e dei miracoli non deve essere né sottovalutata né sopravvalutata. Gli Atti degli Apostoli ci permettono di prendere coscienza che i miracoli non sono la principale causa dell'evangelizzazione, anche se talvolta vi contribuiscono attivamente. Quando le folle si convertono, ciò non è dovuto ai miracoli, ma in primo luogo alla parola della predicazione. Capita anche che certi miracoli non siano compresi e diventino fonte di confusione. Basti ricordare la guarigione di un paralitico a Listra in At 14. Gli abitanti della città avevano pensato, in un primo momento, che Paolo e Barnaba fossero gli dei Zeus ed Ermes! Subito dopo questo avvenimento, ci viene riferito che Paolo viene lapidato, in seguito al fatto che la folla era stata aizzata da un gruppo di ebrei provenienti da Iconio e da Antiochia (At 14,19). In At 16,18, la liberazione dello schiavo posseduto da uno spirito di divinazione causa la collera dei suoi padroni, che vivevano di questo suo “dono". Infine, in At 28, Paolo, morso da una vipera, non muore. I testimoni non si convertono, ma si guardano l’un l’altro come per dire che Paolo era un dio (anche loro!).

Tuttavia, i miracoli e i carismi non devono essere sottovalutati e considerati come inesistenti o inutili. Tutta la storia dell'annuncio del Vangelo è costellata di questi doni dello Spirito Santo che, in una forma ordinaria o straordinaria, portano i non credenti alla fede. Per convincersene, basterà leggere il discorso sui carismi in 1 Cor 12-14. La parola profetica, la parola ispirata pronunziata nell'assemblea riunita in preghiera, è causa diretta della conversione del non credente.

Paolo, nelle sue lettere, parla poco dei miracoli, con l’eccezione di questo discorso sui carismi in 1 Cor 12-14 e probabilmente in 1 Cor 2,4, dove rievoca una dimostrazione della potenza dello Spirito, una possibile allusione ai miracoli. Sono unicamente gli Atti degli Apostoli che attestano la loro realtà. Ora, bisogna riconoscere che questi, anche se sono talvolta mal compresi dai testimoni, sono molto spesso la fonte di conversioni. La guarigione del paralitico di Lidda e la risurrezione di Tabità a Giaffa (At 9,32-43), la liberazione miracolosa di Paolo e Sila (At 16,25-34). At 14,3 risulta particolarmente interessante. Paolo e Barnaba evangelizzano Iconio. Viene detto che essi «parlavano fiduciosi nel Signore, che rendeva testimonianza alla predicazione della sua grazia e concedeva che per mano loro si operassero segni e prodigi».


IV. CONCLUSIONE

Paolo è stato considerato, a torto, come il fondatore del cristianesimo, in quanto la sua opera missionaria ha fortemente caratterizzato il primo sviluppo della fede. Non è senza ragione, dunque, che può essere presentato come il modello per eccellenza di ogni missionario. La caratteristica principale da imitare in lui è certamente il suo legame con Cristo: «ciò che conta è porre al centro della propria vita Gesù Cristo, sicché la nostra identità sia contrassegnata essenzialmente dall’incontro, dalla comunione con Cristo e con la sua Parola» (Benedetto XVI, Udienza del 25 ottobre 2006).

La seconda caratteristica è la sua visione della missione come opera dello Spirito Santo, in concomitanza con la coscienza della sua povertà personale. L'Apostolo deve essere unito a Cristo, ma a Cristo crocifisso. La forza dell’Apostolo è la sua debolezza, che permette allo Spirito Santo di dispiegare tutta la sua potenza. Questa disponibilità nei confronti dello Spirito è la condizione della fecondità apostolica.

La terza caratteristica importante è la sua percezione del carattere universale della salvezza. Paolo è l'uomo dell'universalità. In un mondo segnato dalle divisioni e dalle barriere tra i popoli e le culture, ha compreso che il messaggio di Cristo era destinato ad ogni uomo indipendentemente dalla sua appartenenza culturale o religiosa, dalla sua nazionalità, dalla sua condizione sociale. Ha compreso che « Dio è il Dio di tutti » (Benedetto XVI, Udienza del 25 ottobre 2006).
Infine, la centralità della Chiesa, Corpo di Cristo, è indubbiamente l'ultima lezione da trarre da questo esempio. Paolo ha sempre considerato di dover compiere la sua missione nella Chiesa e attraverso la Chiesa. Si tratta di lavorare all’edificazione del corpo di Cristo. Quindi, è inconcepibile per lui andare a predicare senza essere inviato dalla Chiesa. Che si tratti del suo incontro con Pietro, per essere certo di non aver corso invano, o della sua richiesta di sostegno alla comunità di Roma, Paolo sa che ogni opera missionaria deve essere il frutto di un legame vivo con la Chiesa.



Autore:
P. Jean Baptiste Edart

Fonte: Agenzia Fides

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